Una camera delle dame a Brescia. Moretto, Martinengo e lo sfortunato matrimonio

Brescia, Palazzo Salvadego. Chiamato anche “palazzo della Fabbrica”, risulta già edificato nel XV secolo su un nucleo trecentesco, fu poi ricostruito da Giovan Battista e Antonio Marchetti nel XVIII secolo. Originariamente apparteneva alla famiglia Martinengo di Padernello, importante, molto numerosa, con quindici rami, grandi proprietari terrieri e di numerosi castelli su tutto il territorio.

La residenza fu bombardata nel marzo 1945 e in seguito ricostruita più volte. Una sua meraviglia si è conservata fino ad oggi ed la cosiddetta “Saletta delle nobili dame” realizzata su commissione di Girolamo Martinengo tra il 1539 e il 1543 quando ampliò il palazzo in vista del suo matrimonio con la contessa Eleonora Gonzaga. Le nozze furono celebrate il 4 febbraio 1543 nel Palazzo Ducale di Venezia.

Lui aveva vent’anni, appena tornato da Zara, dove si distinse per gli scontri contro gli Ottomani. Lei era la figlia del duca di Sabbioneta Ludovico e di Francesca Fieschi, sorella minore di Giulia, moglie di Vespasiano Colonna e contessa di Fondi. Il matrimonio fu di breve durata. Il 10 agosto 1545 Eleonora morì di parto, insieme con il figlio neonato. L’aria cupa dei Martinengo torna a colpire i membri della famiglia e il palazzo.

Si tratta di una camera immersiva, completamente decorata dagli affreschi che rappresentano otto gentildonne appartenenti alla famiglia Martinengo, ritratte a mezza figura e con parte del busto immerso nel paesaggio che fa da sfondo. Su tutte le pareti è raffigurata una balaustra sulla quale si affacciano le nobildonne, quasi a creare un dialogo illusorio con lo spettatore. Interamente decorati anche la volta e i costoloni. Un effetto di “camera totale” come le precedenti “camera picta” di Mantegna e le soluzioni di Giulio Romano a Palazzo Te. Le dame mostrano una vasta ricchezza di delle vesti, tutte diverse, e una tale attenzione per i tratti fisiognomici che farebbe escludere una loro idealizzazione.

L’autore è il bresciano Alessandro Bonvicino detto il Moretto, la cui famiglia – di modesti pittori – era originaria del bergamasco. La sua formazione è però tutta bresciana sulla scia di Vincenzo Foppa con uno sguardo attento alle novità venete di Lotto e Tiziano e ai modelli fiamminghi. Entro il 1520 infatti compie un viaggio nel Veneto. Morirà nel 1554.

Bibliografia: Pier Virgilio Begni Redona, Alessandro Bonvicino: il Moretto da Brescia, Brescia, Banca San Paolo di Brescia, 1988

Immagine: Camera delle gentildonne, Moretto 1539-1543 (Palazzo Salvadego – Brescia) | Fonte: giornale di Brescia

Il ritratto che segna la fine della parabola di Thomas Cromwell, cardatore di stoffa

Tower Green, 28 luglio 1540. Muore Thomas Cromwell, condannato a morte senza processo e giustiziato tramite decapitazione. I capi d’accusa: eresia e tradimento. Edward Hall, un cronista del tempo, riporta che Cromwell fece un discorso sul patibolo e che poi “sopportò assai pazientemente il colpo dell’ascia da parte di un rozzo miserabile boia che non fece affatto bene il suo lavoro”.

Cosa portò la morte del personaggio più in vista e più autorevole di tutta l’Inghilterra? L’organizzazione dei matrimoni e della politica. La regina Jane Seymour, la terza moglie, morì il 24 ottobre del 1537. Le trattative per il quarto matrimonio partirono immediatamente e Cromwell scelse la sorella del duca di Cleves, il tedesco Guglielmo. Il matrimonio, però, si rivela subito disastroso ed Enrico incarica Cromwell di trovare le corrette vie legali il divorzio. Gli avversari di Cromwell iniziano il loro gioco di pressione per mandarlo in rovina e ci riescono.

Holbein, al momento del suo arrivo, aveva visto andarsene Moro, Erasmo, Anna Bolena e adesso Cromwell. Praticamente tutti i suoi patroni. Il pittore conserva il suo ruolo a corte. Pare che Enrico si fosse molto lamentato nei confronti di Holbein per il ritratto poco attrattivo di Anna di Cleves. Il re aveva criticato Cromwell per averne troppo lodato la bellezza secondo lui del tutto assente in Anna. Charles de Marillac, l’ambasciatore francese, la descrisse dall’aspetto dignitoso, “alta e sottile, di media bellezza, di carattere modestissimo e gentile”. Non sappiamo quanto ci sia di vero ma certamente riferendoci alla datazione dell’opera, 1539, possiamo segnare questo come l’anno della discesa della parabola di Holbein e ancora di più di Cromwell.

Dopo l’esecuzione tutti i suoi onori gli vennero requisiti e venne pubblicamente proclamato che, d’ora in poi, l’ex primo ministro doveva essere esclusivamente chiamato: “Thomas Cromwell, cardatore di stoffa”. Holbein lo seguì tre anni dopo, il 7 ottobre 1543. Il cerchio così si chiudeva.

Bibliografia: Oskar Bätschmann and Pascal Griener, Hans Holbein, Reaktion Books 2013

Immagine: Ritratto di Anna di Cleves, 1539 (Louvre)

Nel segno del Leone. L’albergo di Giovanni Sforza nel centro di Pesaro

27 luglio 1510. Muore Giovanni Sforza. Pochi altri principi italiani possono vantare matrimoni così importanti come potremmo quelli organizzati per il signore di Pesaro. Prima con Maddalena Gonzaga – nel 1490 morta di parto – poi con Lucrezia Borgia ma durato solo 4 anni e infine con Ginevra Tiepolo per gli ultimi sette anni di vita.

Giovanni Sforza era anche proprietario dell’albergo all’insegna del Leone situato proprio lungo la via fundicorum ovvero il principale asse urbano di Pesaro e posto di fronte alla chiesa di Sant’Agostino. Tra le varie funzioni l’albergo risponde soprattutto all’esigenza di alloggiare in maniera decorosa ambasciatori, notabili e personaggi di alto lignaggio. La struttura, di proprietà signorile ma appaltata a privati, manifesta una dinamica molto in uso nel Rinascimento. Ovviamente le finanze dell’albergo godevano di privilegi, esenzioni da imposte e gabelle così come la gestione di animali da vettura da parte del locandiere. Non sorprende che questa non fosse l’unica struttura di proprietà degli Sforza. Si aggiungono l’albergo del mercato di Gradara e l’albergo della Stella.

La struttura rimane di proprietà degli Sforza fino al 1506. Le prime testimonianze partono dal 1457 e a questa data troviamo un tale Nicolò teotonico, probabilmente tedesco, con la qualifica di “albergator ad hospitium Leonis in civitate Pisauri”. Nel 1475 è invece gestito da Tommaso del fu Antonio “olim de Florentina”. Nel 1486 viene ceduto in affitto a due osti albergatori con annessa officina da maniscalco. Nel 1488 risulta gestore un altro fiorentino, Cristoforo del fu ser Melchiorre. Gli ufficiali del Signore si impegnavano a segnalare l’albergo indirizzandovi “le cavalcate dei forestieri” con un prezzo di favore sui pasti e sulle prebende per i cavalli.

Luglio 1506. Dopo gli avvenimenti politici, la vittoria prima e la sconfitta (e la morte) di Valentino Borgia, gli Sforza rientrano a Pesaro ma Giovanni decide di vendere l’albergo. Da qui possiamo trarre la descrizione dell’immobile: a tre piani, il primo con struttura a volta e i successivi a solai; disponeva dei servizi di orto, cortile e pozzo. Il prezzo concordato fu di 1100 fiorini e il trasferimento di tutte le immunità di cui godeva. In seguito si viene a conoscenza della ricettività dell’albergo: ogni camera viene segnalata con un simbolo e non con un numero. In totale erano 20 e 8 cavalli da vettura.

 

Immagine: Disputa di Santa Caterina, Appartamento Borgia, Musei Vaticani – Pinturicchio 1494 | L’immagine è stata interpretata come una rappresentazione dei personaggi del tempo del papa Alessandro Borgia 

Bibliografia: Maria Lucia de Nicolò, Homo viator. Alberghi, osterie, luoghi di strada dal Trecento al Cinquecento, GF Edizioni scientifiche, 1999

Un boemo, un trentino e un fiammingo verso Mantova. Cronaca di quasi due anni di guerra.

Mantova 1628. Carlo I Gonzaga Nevers, dopo nemmeno un anno di ducato, è già alle prese con un’emergenza. Rifiuta di arrendersi all’esercito imperiale e di consegnare i ducati di Mantova e Monferrato nella mani del Commissario imperiale Giovanni VIII di Nassau-Siegen. Carlo I ha disobbedito e Ferdinando II decide di punirlo. Incarica il suo Feldmaresciallo Rambaldo di Collalto di marciare su Mantova, occuparla e cacciare il Duca. Questi gli antefatti che stanno alla base del famoso “sacco” effettuato dal numeroso esercito messo insieme da Rudolf von Colloredo, Mattias Gallas e Johann von Aldringen. Un boemo, un trentino e un fiammingo riuniscono 30.000 fanti e 12.000 cavalieri tra cui i ben noti mercenari lanzichenecchi. L’esercito si riunisce nei pressi di Lindau sul lago di Costanza, attraversa la Valtellina, giunge nell’alleato territorio milanese di dominio spagnolo. Il 17 ottobre l’esercito entra nel territorio mantovano. Prima Canneto sull’Oglio e poi Marcaria. La prima pausa avviene sotto Natale. I quartieri generali sono collocati a Campitello, Goito e San Benedetto Po. Le cronache del tempo registrano episodi talmente feroci che sfociarono addirittura in cannibalismo. Nel gennaio 1630, mentre riprendono le ostilità, Aldringen e Galasso trovano il tempo anche di sposarsi. Nello stesso giorno e con una coppia di sorelle, Livia e Isabella d’Arco. La marcia di avvicinamento delle truppe è ormai compiuta: il 3 aprile a Rodigo, il 17 aprile a Ostiglia. Il 29 maggio gli imperiali incontrano a Villabona di Goito la resistenza di un esercito veneziano alleato dei Gonzaga. Adesso il Galasso ha il suo quartiere a Belfiore, l’Aldringen a San Giorgio e il Collalto alla Favorita. L’ultimo tassello prevedeva la corruzione del comandante di guardia sul ponte di San Giorgio. Fu facile. Il 18 luglio gli imperiali attaccarono in contemporanea tutte le porte della città. Trovarono resistenza, tranne ovviamente sul ponte.

Da qui può avere inizio la già conosciuta presa di Mantova, il passaggio nel Palazzo Ducale attraverso il volto oscuro, l’ultima, inutile e disperata resistenza in piazza Santa Barbara e il Duca che scappa con la sua famiglia trovando riparo nella Fortezza di Porto a Cittadella. L’esercito ripartì il 4 settembre del 1631.

 

Immagine: Carta del Ducato di Mantova di Giovanni Antonio Magini (1555-1617) – acquaforte, acquerellata a mano su carta, 356 x 458 mm

Bibliografia: Sandro Sarzi Amadè, Johann-Graf von Aldringen il brutale e crudele flagello di Mantova, in La Reggia, anno XXIX, n.2 (112), giugno 2020

Ogni venere di sera. Monteverdi e gli spazi musicali di Palazzo Ducale

15 settembre 1590, Roma. Al soglio papale viene eletto Giovanni Battista Castagna con il nome di Urbano VII. Dopo tre giorni si ammala di malaria. Resiste per altri 10 giorni. Il 27 settembre muore. Gli succede Gregorio XIV.

Nello stesso anno arriva a Mantova un nuovo suonatore di viola e assunto anche con la funzione di cantore. È il cremonese Claudio Monteverdi. Al servizio di Vincenzo I lo troviamo nel 1595 in Ungheria e quattro anni dopo nelle Fiandre. Nel settembre del 1599 Vincenzo farà tappa anche a Bruxelles dove ingaggerà il pittore Frans Pourbus. Nel 1601 Monteverdi diventa “maestro e de la Camera e de la Chiesa sopra la musica”. Ha dovuto attendere la morte di ben quattro predecessori tra cui Giaches Wert e Alessandro Striggio junior. La data che farà la differenza nella sua carriera – forse non tanto in vita ma sicuramente dopo – fu la il 24 febbraio 1607 quando si tenne la prima rappresentazione della Favola di Orfeo. Due giorni prima si era tenuta invece nell’Accademia degli Invaghiti. Il 14 marzo 1608 nella sala detta de’ specchi – in realtà è la Sala dello Specchio – si è tenuta invece la prova di Arianna in cui si conoscerà la voce portentosa di Virginia Andreini che stava sostituendo Caterina Martinelli appena morta di vaiolo. Lo spettacolo, dopo due mesi di prove, avrà luogo il 28 maggio in occasione dei festeggiamenti della nuova coppia ducale Francesco IV Gonzaga e Margherita di Savoia. Per la prima volta si esce dal chiuso delle adunanze degli intenditori e si offriva lo spettacolo anche al grande pubblico. Per l’occasione viene allestito lo spazio del cortile della Cavallerizza.

CLAUDIO IN PALAZZO. La musica era ovunque a Palazzo ma gli spazi essenziali pensati con questa funzione erano la Sala dello Specchio – che verrà confusa con il Logion serato chiamato nel 1779 Galleria degli specchi – dove “ogni venere di sera si fa musica”, la Sala degli Arcieri ovvero “il salon dove si balla” e ovviamente il Teatro Grande di corte. Durante le feste del 1608 qui ebbero luogo Manto, L’idropica e il Ballo delle Ingrate. Le sue musiche furono messe in scena anche nel cosiddetto Teatro Piccolo o dei Comici anche se non documentate. Probabilmente le sue musiche si sentirono anche all’interno delle due chiese interne al Palazzo ovvero Santa Croce e la Basilica di Santa Barbara dove venne suonato l’inno Ave maris stella.

CLAUDIO PRIVATO. Non visse all’interno della corte ma ha scelto un’abitazione collocata nell’attuale vicolo Freddo che faceva parte della parrocchia dei Santi Simone e Giuda. Qui infatti, nella chiesa, Monteverdi il 20 marzo 1599 si sposa con Claudia Cattaneo, cantante di corte. Ebbero tre figli ma Claudia morì appena otto anni dopo. Il 1612 segna la fine della sua esperienza mantovana. Morto Vincenzo I, Monteverdi non ha mecenati in Palazzo, venne licenziato e fu costretto a fare ritorno a Cremona.

10 luglio 1613, Venezia. Succede un fatto che Monteverdi non pensava potesse essere così connesso alla sua vita. Muore Giulio Cesare Martinengo il maestro di cappella della Basilica di San Marco. Il 19 agosto Monteverdi prese il suo posto. Non lasciò più Venezia fino al 29 novembre 1643 quando morì sotto forma di note.

 

Bibliografia: Paolo Fabbri, Monteverdi, Biblioteca di cultura musicale 2018 | Claudia Burattelli, Spettacoli di corte a Mantova tra Cinque e Seicento, Casa editrice Le Lettere, 1999 

Immagine: Bernardo Strozzi, ritratto di Claudio Monteverdi 1630 – Kunstgeschichtliche Sammlungen (particolare delle mani e dei madrigali)

 

Il buffone, il pittore e il viaggio in Italia. Molte ipotesi di una piccola tavola

Cremona, 25 ottobre 1441. Va in scena il matrimonio tra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza. I festeggiamenti sono proseguiti per diversi giorni con tornei, carri allegorici e un sontuoso banchetto nuziale. Per l’occasione agli ospiti fu servito il primo torrone. Qualche mese prima, a giugno, era morto a Bruges Jan Van Eyck.

Ferrara. Nello stesso anno va in scena la morte di due personaggi opposti, un marchese e un buffone ovvero Niccolò III d’Este e Pietro Gonella.

IL VIAGGIO. Data imprecisata, forse prima forse dopo. Jean Fouquet compie il suo viaggio in Italia dove visita Roma, Napoli, Firenze e poi approdo alla corte estense di Leonello d’Este, figlio del marchese Niccolò III morto solo quattro anni prima. Il pittore di Tours, poco più che ventenne, ha una formazione artistica parigina e fiamminga, borgognona nello specifico. In Italia ha modo di conoscere l’arte dei contemporanei Beato Angelico, Domenico Veneziano, Piero della Francesca e apprezzare la pittura di Masaccio. Il viaggio gli permetterà di conoscere i monumenti italiani – che inserirà con sempre maggiore insistenza – la prospettiva, la luce razionale e limpidissima di Beato e il rigore matematico di Piero. Durante la sosta nella corte estense esegue il ritratto a lui attribuito del buffone Gonella.

IL BUFFONE. Si trattava di un nome comune tra i comici alla corte di Ferrara, infatti tra il XIV e il XV secolo se ne contano tre e spesso le loro storie e le loro epoche si sovrappongono. Una vera dinastia. Quello dipinto da Fouquet è il secondo in ordine di tempo, Pietro, che ha intrattenuto la corte di Niccolò III d’Este fino al 1441, data della morte per entrambi. Pietro Gonella era nato a Firenze nel 1390. Carlo Ginzburg, in un suo celebre testo dedicato all’opera, osservava che probabilmente, si tratta del «più antico esemplare rimasto di ritratto autonomo di un buffone.

DOMANDE. La piccola tavola – 36 x 24 centimetri – porta con sé tutta una serie di domande che ne potrebbero costruire o ricostruire la storia. Fouquet l’ha eseguito mentre era a Ferrara o al ritorno in Francia? è possibile anticipare il viaggio di Fouquet al tempo in cui Gonella era ancora vivo? se invece il viaggio è stato compiuto dopo la morte del comico come è riuscito il pittore ad eseguire il ritratto? era già stato eseguito dipinto che lo ritraeva? c’era un disegno? l’autore del dipinto è Fouquet oppure un altro pittore sempre di area fiamminga? Magari fatto a distanza senza necessariamente aver compiuto il viaggio a Ferrara?

IL RITRATTO. Mai un buffone era stato registrato con un primissimo piano come ha fatto probabilmente Fouquet. Gonella, rappresentato con un forte realismo, è inserito in una inquadratura che taglia fuori alcuni dettagli della figura ma al contempo si espone verso lo spettatore. Il ritratto, svincolato dalle convenzioni del tempo, non un intento canzonatorio o di metterne in luce gli aspetti buffi. C’è invece tutta l’umanità e la connotazione psicologica tipici del ritratto fiammingo su cui proprio Van Eyck aveva lavorato. La resa è epidermica tanto che si contano le rughe, si vede la barba fatta da poco e brizzolata – aveva circa 50 anni – e la veste tipica dei giullari con una giubba a strisce verticale alternate di colori sgargianti.  Grandi bottoni e sonagli sull’abito, come prevedeva la prassi, per anticipare con il suono l’arrivo del giullare. In testa uno zuccotto molto semplice ma decorato con una striscia di pelliccia esterna.

ACCOSTAMENTI. Sicuramente è ben presente la formazione fiamminga di Fouquet visibile nei dettagli della veste. Guardando ai dipinti dello stesso e cercando una vicinanza stilistica per confermare la paternità di Gonella, c’è la stessa introspezione psicologica del ritratto di Guillaume Jouvenel del Louvre (1460-65) o del ritratto di uomo del Museum of Arts di Indianapolis. Nel Dittico di Melun del 1450, oltre ad una straordinaria eleganza, mostra una attenzione alla matericità delle vesti e un amore da miniatore – quale era – per i dettagli. Potrebbe essere lo stesso artista che tra il 1452 e il 1460 realizza il Libro d’Ore di Étienne Chevalier? Fouquet era sicuramente rientrato dal viaggio in Italia e ha fatto tesoro di luce, prospettiva e rigore. Un lavoro da cesellatore più che miniatore che ben si allineano con la straordinaria prova ritrattistica del buffone Gonella.

Bibliografia: Carlo Ginzburg, Ritratto del buffone Gonella, Franco Cosimo Panini, 1996 | 

Immagine: Ritratto del buffone Gonella, attribuito a Jean Fouquet (1447-50?) – Kunsthistorisches Museum di Vienna. 

 

 

Vasari e l’idea del primo hub moderno. Il modello per il Ducale di Mantova

1565. A Firenze è l’anno del matrimonio del figlio Francesco I e Giovanna d’Austria, figlia dell’imperatore Ferdinando I d’Asburgo. È lo stesso anno  della costruzione del corridoio vasariano per volontà di Cosimo I de’ Medici. Tempo di realizzazione 5 mesi. Cosimo era il secondo – e ultimo – duca di Firenze e quattro anni dopo sarebbe diventato il primo granduca di Toscana. Un passo avanti deciso verso la costruzione di uno stato moderno.

Un corridoio per collegare, proteggere, privatizzare. Si trattava di realizzare un percorso sopraelevato per congiungere Palazzo Vecchio, Ponte Vecchio e Palazzo Pitti che dal 1549 era stato acquistato da Eleonora di Toledo, moglie di Cosimo. Il libero movimento della famiglia è da leggere nell’idea di un “palazzo diffuso” dove le singole parti, di epoche diverse, sono tenute insieme da collegamenti per un totale di oltre 500 metri. Non mancava l’aspetto teatrale e quello religioso lambendo proprio per il Teatro della Baldracca e la Chiesa di Santa Felicita.

IL MODELLO FIORENTINO. L’idea di un polo nevralgico e smart – quello che oggi chiameremmo hub – era venuta a Cosimo cinque anni prima. Era stato ingaggiato Giorgio Vasari per riunire le 13 più importanti magistrature fiorentine – dette Uffici – in un unico edificio posto sotto la tutela e la sorveglianza del Duca. A fianco infatti c’è il Palazzo Vecchio – all’epoca Palazzo Ducale – e dall’altra parte dell’Arno invece la residenza “suburbana” ovvero Palazzo Pitti. Dagli Uffizi al Giardino di Boboli passando per Ponte Vecchio che viene adeguato alla funzione: il celebre e tradizionale mercato delle carni fu trasferito e al suo posto inserite le più consone botteghe degli orafi.

L’APPLICAZIONE MANTOVANA. Un tale modello costruttivo viene ben presto assimilato e usato anche nelle altre corti che hanno simili “problemi” di spazio. Un caso analogo è quello del Palazzo Ducale di Mantova. Tanti edifici diversi, di epoche diversa, con funzioni diverse. L’azione di cucitura viene avviata con il duca Guglielmo Gonzaga che dal 1562 avvia la costruzione della chiesa di Santa Barbara. Tale struttura – la cappella palatina e privata della famiglia – sarà la stella polare dell’intero complesso di 35.000 mq. Dal 1595 con il duca Vincenzo I – il figlio di Guglielmo – il complesso sarà dotato di un ulteriore incremento di corridoi e gallerie coperte ad opere di Antonio Maria Viani, prefetto alle fabbriche ducali. È sorprendente la stessa analogia che prevede la comunicazione tra Corte Vecchia, Magna domus, il Duomo, la chiesa palatina, il castello e la Corte Nuova. Inoltre serviva per facilitare lo spostamento della famiglia. tra di diversi luoghi dello spettacolo. Il duca così si poteva spostare da un teatro all’altro, da quello privato a quello dei comici a quello aulico.

 

Bibliografia: Claudia Burattelli, Spettacoli di corte a Mantova tra Cinque e Seicento, Casa Editrice Le Lettere, 1999 – G. F. Young, I Medici, Salani Editore 2016 

Immagine: Veduta di una parte del corridoio vasariano 

Matrimoni in tempo di crisi. Quando lo zucchero costava più del marmo antico

Dopo la crisi ufficialmente aperta dal sacco ad opera dei lanzichenecchi chi poteva avere voglia di festeggiare? E invece i matrimoni avevano comunque bisogno di una certa solennità e di una liturgia politica da rispettare. Nel 1649 muore un Carlo – primo d’Inghilterra a cui era andata gran parte del bottino mantovano – e se ne sposa un altro – secondo Gonzaga Nevers. La sposa è Isabella Clara d’Asburgo nipote dell’imperatore Ferdinando II. Il 10 novembre il matrimonio si svolge nel suo momento pubblico con un solenne banchetto all’interno della Sala delle Virtù, nell’appartamento di Castello. Per giorni e giorni le vie e le piazze della città si trasformarono in teatri ludici pronti ad accogliere giostre, teatri e tornei. Nicolò Sebregondi si era occupato di progettare gli apparati effimeri. La piazza San Pietro – oggi Sordello – era stata preparata come un enorme giardino fiorito e al centro un palco con una chiara e simbolica aquila imperiale collocata sopra. Sfilarono poi cinque carri allegorici accompagnati da canti, balli e fuochi d’artificio. La lunga lista dei cibi è talmente precisa da riportare quantità e prezzi di ogni portata. Le migliori carni rosse, polli e capponi, il pesce del Lago di Garda, le spezie più pregiate e uva passa, pasta di marzapane e lo zucchero lavorato modellato costruito. Il mastro del banchetto fu Jacopo Emilio Sacchetti.

Il costo di queste strutture effimere era una follia. Alla metà del Cinquecento una scultura in zucchero del peso di un 1 chilogrammo e mezzo corrispondeva al prezzo di una scultura antica in marmo. De gustibus.

 

Bibliografia: Vincoli d’amore. Spose in casa Gonzaga, a cura di Paola Venturelli 2013

Immagine: Carri trionfali progettati per un banchetto dato a Roma da un ambasciatore britannico il 14 gennaio 1687