Essere guelfi e ghibellini a San Gimignano. Una questione di altezza

21 agosto 1300. Proprio quattro mesi dopo l’accoglienza data a Dante si comincia a realizzare la Torre Grossa. Verrà terminata nel 1311 ovvero quando il poeta aveva 46 anni. La torre, verrà chiamata così, proprio perché, con i suoi 54 metri, corrispondeva alla costruzione più alta.

San Gimignano, nella parlata comune, rischia di essere quella città che viene accomunata a tutte le altre solo per la presenza delle torri. La Torre Grossa è una delle 14 rimaste oggi. Dante, dalla finestra del suo alloggio, avrebbe potuto contarne non più di 72. Nel 1580 invece il numero delle torri si riduce ad appena 25 ovvero in poco più di due secoli ne sono state abbattute il 65%. Il Trecento segna il declino di San Gimignano: i dissidi interni tra le famiglie – soprattutto Ardinghelli e Salvucci – la peste e la carestia del 1348 e la consegna della città a Firenze nel 1351 che portò alla rinuncia della sua autonomia. Così si cristallizza il suo aspetto medievale, intonso da allora, ma così allo stesso modo si riduce la prosperità che l’avevano caratterizzata nel Duecento. Le torri cominciano a calare.

Ma nel Duecento avremmo assistito ad un fermento costruttivo tutto teso verso l’alto. Per regolamentare l’altezza delle torri si provvede ad emanare uno statuto cittadino che vietava a qualunque privato di costruire una torre più alta della Rognosa ovvero 52 metri. Datata fine XII secolo si tratta anche della più antica. La disposizione fu quasi ignorata e la vicina famiglia Salvucci, della parte guelfa, a pochi passi, fece innalzare due torri gemelle. Ovviamente vennero seguiti a ruota dai rivali e ghibellini Ardinghelli. Quattro gemelli in pochissimo spazio. Al tempo erano più alte della Rognosa e così venne scapitozzate ovvero “tagliate” e ridotte. La Rognosa, oltre che torre del Podestà e delle Ore, divenne in seguito carcere e per questo acquisì il suo dispregiativo con cui oggi è conosciuta.

Non poteva mancare la Torre del Diavolo, famoso epiteto che corrisponde all’incredibile celerità di costruzione. Faceva parte del Palazzo dei Cortesi recuperando la formula classica che vedeva la torre non essere una costruzione isolata ma facente parte di un complesso di edifici, spesso una curtis.

Immagine: Torri gemelle dei Salvucci

Bibliografia: San Gimignano, Fondazione Musei Civici, 2010 | Luca Giorgi, Pietro Matracchi, Le torri di San Gimignano. Architettura, città, restauro, Dipartimento di Architettura di Firenze, 2019

Le streghe e lo scienziato. La formula per l’unguento che faceva volare

Nella seconda metà del Cinquecento il fenomeno della stregoneria viene visto nella sua dimensione scientifica e slegata dalla sfera magica, demoniaca e religiosa. Uno dei fautori di questo sguardo fu il medico pavese Gerolamo Cardano. Si inserisce anche lo scienziato napoletano Giovan Battista Della Porta. Nel 1558 pubblica il Magie naturalis. In un capitolo dedicato ai sogni afferma che le visioni che le streghe dicono di avere durante il sabba sarebbero provocate dall’uso di sostanze naturali.

Della Porta descrive anche la formula dell’unguento magico utilizzato: “esse cuociono in un vaso di rame grasso di bambini stemperato con acqua. Cocendo l’acqua evapora e nel vaso rimane una pasta a cui le streghe aggiungono aconito, foglie di pioppo, sangue di pipistrello, solano sonnifero e olio”. Il risultato viene spalmato sul corpo “strofinando la pelle fino ad arrossarla, in modo che si rilasci, di dilatino i pori e l’olio penetri più profondamente nei tessuti”.

Dopo l’applicazione sulla pelle le streghe “credono di volare, di banchettare e di ritrovarsi con giovani bellissimi”. Della Porta sostiene inoltre che l’immaginazione e la suggestione provengono da quella parte del cervello “che è detta memorativa”. Dice di averlo realizzato egli stesso alla presenza di testimoni. La formula, che afferma di averla presa direttamente da una strega, probabilmente proviene dal De rerum varietate di Gerolamo Cardano scritto appena l’anno prima. Lo scienziato napoletano, con la sua pubblicazione, prende posizione nel dibattito del tempo tra medici e teologi sul volo magico e sui riti stregoneschi. Secondo lui erano appunto derivanti da una visione onirica prodotta da ricette e formule che impiegavano sostanze naturali.

Immagine: Le quattro streghe, Albrecht Durer – Bulino, mm 190 x 131. Pinacoteca Tosio Martinengo (Brescia). Quest’opera, datata 1497, è la prima incisione a bulino firmata in lastra dal Dürer.

Bibliografia: Giordano Berti, Storia della stregoneria, Mondadori 2010

“Pavia sembra alzarsi fino alle nuvole”. La torre Belcreda e le sue sorelle

Sono tante le città, con un’importante storia medievale, che sono passate alla storia come le città “dalle cento torri”. Erano veramente così tante? c’è un fondo di verità oppure è una costruzione esagerata e successiva? Infatti, nonostante i moltissimi esempi come Bologna, Mantova ed Ascoli tutte le città turrite rischiano di essere figlie o sorelle di San Gimignano o di richiamarsi a quell’epiteto.

Prendiamo l’esempio di Pavia. Dopo l’anno mille in città si stabiliscono i Beccaria, Bottigella, Gambarana, Langosco e i Belcredi, piccoli nobili titolari di benefici feudali che possedevano rocche e terreni in Oltrepò e Lomellina. Un trasferimento che comporta anche la costruzione di una torre o meglio di una casa-torre. A differenza di altre città come Bologna, la documentazione sulle torri è quasi del tutto inesistente. E così dobbiamo aspettare Opicino dè Canistris nel 1330 per avere il primo autore che ne parli. Chierico e miniaturista al servizio della corte pontifica avignonese, Opicino nel suo “Libellus descriptione Papiae” descrive chiese, monasteri e mercati urbani nella Pavia medievale. Francesco Petrarca soggiorna a Pavia ospite di Ottone Visconti tra il 1366 e 1369. Così scrive in “Della vecchiaia”: Pavia side in luogo dominante, e sembra alzarsi fino alle nuvole, con fitte torri e con veduta libera da qualunque parte la si sguardi.

Rimangono le tre celebri torri di piazza Leonardo da Vinci e che si trovano sul limite settentrionale delle mura della città e sono al di fuori del reticolo viario e perfino non allineate tra loro. Quella del Maino alta 51 metri dal nome della famiglia nobile che a lungo ne fu la proprietaria e le due “dell’Università” alte 38 e 39 metri. La più alta è la Belcreda che svetta con i suoi 60 metri. Sono alte, sottili, un po’ pendenti come le famose bolognesi. Le altre, per un totale complessivo di 51 torri, sono sparute e sparse sopravvivenze tra le vie del centro storico. La torre di casa Lacchini e di S. Margherita in piazza Borromeo, di S. Tomaso, dei Catassi, di casa Parona e Martignoni, della Rocchetta, di piazza Cavagneria, della Zecca. Si tratta di guasti, mozzature e cambio d’uso.

A differenza delle città sopracitate Pavia si distinse per la relativa stabilità tra le famiglie e le fazioni al suo interno. Certamente non mancarono i dissidi tra guelfi e ghibellini qui chiamati Fallabrini e Marcabotti. Dal 2 ottobre del 1315 i Visconti, in lotta con i Torriani, presero la città. Matteo Visconti lasciò il controllo di Pavia alla famiglia Beccaria. La rinascita della città fu esponenziale: lo studium, la certosa, il castello. L posizione geografica,la difesa delle mura e la presenza del fiume Ticino, rendeva Pavia una città ricca, tranquilla e commercialmente prospera. Almeno fino ai primi anni del Cinquecento quando fu la volta delle dominazioni di francesi, spagnoli e austriaci.

Immagine: Veduta di Pavia del XVI secolo – Bernardino Lanzani, Chiesa di San Teodoro

Bibliografia: Mario Merlo, Castelli, rocche, case-forti, torri della provincia di Pavia, Edizioni Selecta, 2009 | Angela Macelli, Ivano Dossena, Pavia col naso all’insù. Un itinerario fra le torri, Fondazione We Build – Uniti per operare Onlus, 2013

Un mantovano a Monaco. Jacopo Strada e l’Antiquarium che parla romano

Dal 1557 Jacopo Strada è al servizio di tre imperatori e un duca. Ferdinando I, Massimiliano II, Rodolfo II e Alberto V di Monaco. Proprio per lui, per la sua residenza ducale, l’architetto mantovano realizzò il famoso Antiquarium.

Venne realizzato tra il 1568 e il 1571 da Jacopo Strada e Simon Zwitzel. Proprio in questo clima artistico si forma il giovane cremonese Antonio Maria Viani che nel 1595 passò poi alla corte gonzaghesca di Vincenzo I. Viani si trasferisce a Monaco nel 1586 grazie ai rapporti con l’architetto Frederick Sustris e Pieter de Witte. In questo periodo realizza le pale per la Chiesa di San Michele dell’ordine dei Gesuiti.

La nuova struttura, una lunga galleria che doveva raccogliere la collezione di statuaria, viene realizzata come corpo aggiuntivo della Neuveste ovvero la fortezza nuova già presente nel 1385. L’Antiquarium occupa l’intero piano terra dell’edificio ed è la più grande galleria d’arte in stile rinascimentale al nord delle Alpi. La profusione di grottesche e l’attenta disposizione delle sculture rilevano il forte influsso dell’arte italiana sicuramente dovuto a Jacopo Strada. Al di sopra della galleria venne collocata la biblioteca di corte voluta e fondata proprio da Alberto V. Oltre alla scultura antica il duca era un appassionato di numismatica. La sezione del suo gabinetto venne curata da Willibald Imhoff, patrizio tedesco della nota famiglia Imhoff, che tra le sue competenze vantava quelle di banchiere, collezionista e mercante d’arte.

La realizzazione dell’Antiquarium si colloca proprio negli stessi anni della trasformazione della Loggia di Giulio Romano in Corte Nuova. Tra il 1570 e il 1572 la loggia aperta viene chiusa e raddoppiata da Giovan Battista Bertani per collocare le statue e i marmi acquistati dal duca Guglielmo a Roma. Così la Loggia diventa la Galleria dei Marmi in piena continuità con Giulio Romano. Il prezioso contenitore in stucco diventa solo il lato di un progetto più grande che vedrà già progettata in questi anni la Galleria Grande o della mostra per disporvi i dipinti. Marmi e quadri, gallerie tematiche e perpendicolari.

Immagine: Antiquarium, Münchner Residenz (Monaco di Baviera)

Bibliografia: Jacopo Strada and cultural patronage at the Imperial Court, a cura di Dirk Jacob Jansen, Brill Open 2019

“Sane, nette e ben disposte”. Cercasi fanciulle per allevare bachi da seta tra i seni

Roma 1588. Viene pubblicato il testo Dialoghi di M. Magino Gabrielli hebreo venetiano sopra l’utili sue inventioni circa la seta. Il suo vero nome era Meir di Gabriel Zarfati con radici francesi. Nasce quasi sicuramente a Venezia e questo dato viene confermato dalla firma “hebreo venetiano” presente sul frontespizio dei Dialoghi.

Con il lucchese Giovan Battista Guidoboni aveva stretto una compagnia a Venezia il primo di settembre del 1586. I due mettono a punto un sistema di bachicoltura che consentiva di far nascere e sviluppare due volte l’anno i bachi da seta raddoppiando così la produzione di una materia tanto richiesta e preziosa. La provenienza lucchese del socio Guidoboni era sicura garanzia della bontà del metodo sviluppato. Lucca, da sempre, era considerata la capitale della seta. La finalità era chiara. Presentare il loro metodo ingegnoso ai diversi signori delle città italiane ed europee e strappare la concessione di privilegi commerciali e produttivi.

Ma perché il loro metodo risultava così innovativo? Era fondamentale trattare le uova dei bachi con amorevole cura e preservarne la sanità. Maggino raccomandava di mettere le uova in un bicchiere di Malvasia e avvolgerle in un fazzoletto. Poi, una volta fatto il fagottino, “una donna giovane se lo metterà nel petto ad asciugarlo per un giorno o dui”. Per crescere belli e sani i “vermicelli” secondo il Maggino dovevano aver bisogno dei seni abbondanti di giovani fanciulle “sane, nette e ben disposte, e più tosto di carne che altramente, et migliori sariano le vergini”.

I giovani bachi dovevano inoltre essere avvezzati alla musica soprattutto quella ritmata e sonora dei cembali e dei tamburi “cominciando le prime volte pian piano e seguendo da poi di volta in volta più gagliardamente”. In questo modo i bachi si abituavano ai rumori “talché poi quando sentono lo strepito delle bombarde o la rovina de’ tuoni celesti non moreno”.

Immagine: Illustrazione delle fasi evolutive del baco da seta

Bibliografia: Ariel Toaff, Il prestigiatore di Dio, Rizzoli 2010

Il regalo di Ludovico a Leonardo. La vigna, l’uva di Candia e il testamento

Tra il 1494 e il 1498 Leonardo da Vinci è a Milano ed è alle prese con l’Ultima cena all’interno del refettorio del convento adiacente a Santa Maria delle Grazie. E’ proprio in questo stretto giro di date che riceve da Ludovico il Moro, suo committente, un vigneto come riconoscenza e dono per i lavori che stava realizzando.

2 ottobre 1498. A questa data la vigna risulta già citata in questo atto notarile. La donazione viene poi confermata in un’altra lettera datata 26 aprile 1499. La vigna era collocata oltre il quartiere di Porta Vercellina, nei pressi del Borgo delle Grazie, a ovest della città e chiamata così perché si apriva lungo la strada che portava a Vercelli. Oggi si chiama Porta Magenta.

Della donazione di Ludovico sappiamo solo la superficie ma non ne conosciamo i confini. Si tratta di un terreno di 16 pertiche ovvero 8.300 metri quadrati. Il regalo del signore di Milano deve essere visto come un gesto di grande gentilezza. Essendo a conoscenza dei molti vigneti in possesso dell’artista nelle sue terre toscane, Ludovico ha voluto omaggiare Leonardo con un dono che lo facesse sentire a casa. Di che vino si trattava? Secondo le indagini compiute sulle radici rinvenute doveva trattarsi di Malvasia di Candia.

A Milano Leonardo trascorre 18 anni della sua vita, dal 1482 al 1500 quando per l’occasione di rifugiò a Mantova. Prima di partire affittò la vigna a messer Pietro di Giovanni da Oppreno ovvero il padre di Salai, uno dei suoi migliori allievi. I francesi, una volta occupata Milano, confiscarono anche la vigna e la consegnarono a Leonino Biglia, funzionario degli Sforza. Nel 1507 la vigna venne restituita a Leonardo. Il 20 aprile 1507 così scrive Carlo d’Amboise: “tocando il caso de magistro Lionardo fiorentino ve dicemo et commettemo che lo remettiate nel primo stato, come esso era, de la vigna sua inante che la gli fusse tolta per la Camera, et non gli fareti chel ne habia a patire spesa pur de uno soldo”.

1513. Questo l’ultimo anno di Leonardo a Milano. Nel suo testamento, redatto un mese prima di morire ad Amboise, ordinò che la vigna venisse suddivisa in due lotti uguali, da assegnare a Salai e a Giovanbattista Villani, il servitore che l’aveva seguito in Francia, che nel 1534 cedette la sua parte al vicino Monastero di San Girolamo.

Immagine: Palazzo Atellani, corso magenta 65-67. Qui nel 2015 è stato realizzato il reimpianto filologico della vigna di Leonardo. Acquistato dai conti Landi di Piacenza, il Palazzo passò di proprietà a Ludovico Sforza e poi alla famiglia Atellani.

Bibliografia: Jacopo Ghilardotti, La casa degli Atellani e la vigna di Leonardo, Rai Libri 2015

Giacomo da Lisbona, l’oro potabile e il marchese curioso

29 aprile 1471. Un certo Giacomo da Lisbona scrive da Marcaria al marchese Ludovico II Gonzaga per celebrare il suo oro potabile che aveva somministrato alla moglie di Vivaldo della Strada, nota e famosa famiglia di speziali, ammalata di tisi.

Giacomo forma una strana coppia con Guglielmo Bersani, un servitore del Gonzaga. E infatti fu proprio lui a segnalare a Ludovico le strabilianti capacità di Giacomo da Lisbona. Inizialmente il l’oro potabile veniva provato sui malati considerati incurabilles dai medici. Pare che lo stesso farmaco sia stato somministrati il 27 luglio 1514 dal medico Francesco de Meo ad una monaca servita di Santa Maria della Misericordia e che parve trarne beneficio in tempi rapidi così come capitò ai “pazienti” sottoposti alle cure di Giacomo.

Chissà se si tratta dello stesso Giacomo ma il 6 giugno 1497 un certo Lisbonensis – l’alchimista spagnolo – viene arrestato poco dopo le 11 di mattina.

Questa la ricetta e la preparazione: solvasi l’oro o in foglii o in calce o limato nel narrato mercurio. Si feltri la soluzione e si cavi in orinaletto il solvente sino a siccità. Poi si getti sopra tali auree feci spirito di vino rettificato, e s’havrà un oro potabile perfettissimo, qual potrà radolcirsi con giuleppe* o pur darsi alli amalati, cioè di esso goccie 20, sopra d’un cucchiaro, con giuleppe perlato.

*giuleppe = denso sciroppo di zucchero con aromi, succhi di frutta o infusi di fiori.

Immagine: Alchimista al lavoro nella fornace, acquaforte di Cristoph. Murer, 1600-1614.

Bibliografia: Rodolfo Signorini, Fortuna dell’astrologia a Mantova, Editoriale Sometti, Mantova 2007

Il sugolo di fine Seicento. Consigli e ricetta del medico Felice Ottoni

Palazzo d’Arco, 26 settembre 1691. In una lettera del medico Felice Ottoni scritta al conte Giuseppe Maria Chieppio si parla espressamente di “sugolo”. Settembre è il mese della vendemmia e a Mantova era consuetudine realizzare un budino con il mosto d’uva. Il medico si lasciava andare a descrizione con più colore tanto da affermare essere “il nettare degli dei. Egli nella farina rappresenta madre Eva, nel mosto padre Adamo”. Confortava anche sulla sua natura poco alcolica: “componendosi il sugolo di mosto, sostanza piena di quanti spiriti che ubriacano i soverchi bevitori, però non ubriaca mai, per molto e molto che se ne prenda”.

Il medico non entrava nella questione della ricetta riferendo il peso dei singoli ingrediente ma si limitava a scrivere: se ben nel dimenar che faceva la massara una canella dentro un caldaro haveva io alla prima interpretata polenta, dal mirar poi graspe di qua, tamiggio di là (era il setaccio) ed una truppa in fila di scodelle su la tavola, conobbi che era sùgolo quel che facevansi. Poh, benedetti, dissi tra me, i nostr’antichi, benedette le nostre nonne cui venne in pensiero così bella invenzione.

Il vero segreto? Il lavoro manuale e legare bene gli ingrediente tra loro: traesi il gran merito che ha nella manipolazione del sugolo quella canella, et il tanto menarlo che fassi quando ei componesi, meschiansi tra di loro a minimo per minimo gli ingredienti e da cotal impastatura stringonsi essi tra di loro in buona amicizia, anzi alterati dal calore del fuoco si uniscono talmente che diventano un unum quid ed in ciò appunto consiste la perfezione del misto.

Immagine: vitigno (fonte: pixabay)

Bibliografia: Ercolano Marani, Vie e piazze di Mantova, 2015