L’unico prigioniero della Torre della gabbia

La torre della gabbia più che una nomea ha solo il nome. Sì perché dai documenti non emergono altri casi oltre a quello che ha visto come protagonista Marchino Ziganti rinchiuso il 15 maggio 1576. E’ il periodo di Guglielmo Gonzaga. La gabbia è di piccole dimensioni, giusto per una persona e soprattutto si trova all’esterno di una torre che dal 1576 porterà quel nome. La torre, così come il palazzo, al tempo era di proprietà della famiglia Guerrieri e donata cinquant’anni prima – insieme al cognome – dai Gonzaga. In sostanza si trattava di un edificio privato utilizzato come luogo di detenzione, cosa che la legge proibiva. Infatti senza preventiva autorizzazione gli Statuti mantovani vietavano ai privati di avere proprie prigioni.

Marchino era stata condannato “per mariuolo da borse”. I documenti indicano la pericolosità delle scale di legno percorsa dai vivandieri che portavano il cibo al prigioniero e infatti vengono definite “perigliose assai”. E così quando le condizioni fisiche di Marchino peggiorarono e c’era bisogno di un medico si è dovuto attendere fino al 24 agosto.

Ci sono stati altri prigionieri dopo Marchino? No, né sappiamo la fine che ha fatto. Dai documenti possiamo immaginare che in seguito non si sia intervenuto nel miglioramento delle scale e che quindi hanno continuato ad essere perigliose assai. Di fatto questa torre, con la gabbia rivolta verso la città, diventava un totem che voleva dimostrare la forza della giustizia. Più un simbolo di terrore che uno strumento pratico.

Bibliografia: Itinera chartarum. 150 anni dell’Archivio di Stato di Mantova, Saggi in onore di Daniela Ferrari, Silvana Editoriale 2019

Immagine: Torre della gabbia (fonte wikipedia)

Nicolas Flamel vero alchimista? La storia di una leggenda

Pontoise, 1330. Due anni dopo la cacciata dei Bonacolsi nasce Nicolas Flamel. Da due anni a Mantova si era impiantato a forza e a richiesta il Capitano del Popolo Luigi I. Iniziò la carriera come scrivano, nel 1368 sposò Perenelle, di agiate condizioni ma con due matrimoni sfortunati alle spalle da cui era rimasta vedova. Tra i diversi domicili a Parigi si registra quella, ancora oggi esistente, al 51 di rue de Montmorency, una strettissima e lunga via che comincia in rue du Temple e finisce in rue Saint-Martin. Viene considerata la più antica casa in pietra di Parigi. Dal 1407 era di proprietà dei coniugi Flamel.

In una data non precisata l’abitazione viene privata del pignon ovvero la parte terminale della facciata, a forma di triangolo, di un edificio con tetto a due spioventi. Doveva essere molto imponente visto che era chiamata Maison du grand pignon. Il piano terra veniva utilizzato a fini commerciali mentre uno dei piani superiori ospitava gratuitamente poveri e bisognosi. I Flamel, molto devoti e molto attivi in azioni di beneficienza, in cambio chiedevano agli ospit di recitare ogni giorno un Padre nostro e un’Ave Maria per i defunti. Non tutti sanno che Flamel contribuì a proprie spese al restauro del Cimitero degli Innocenti di Parigi.

Il testamento del 22 novembre 1416 indica di certo una certa agiatezza ma non la straordinaria ricchezza che gli conferiscono le leggende posteriori. Sorprende la mancanza di testimonianze che confermano storicamente l’esercizio da parte di Flamel dell’alchimia. La moglie muore nel 1397 mentre i Gonzaga combattevano – e vincevano la battaglia di Governolo contro i Visconti. Nicolas muore il 22 marzo 1418 e fu sepolto a Parigi verso la fine della navata della vecchia Chiesa di Saint Jacques de la Boucherie. Dopo la distruzione del 1797 oggi rimane solo la torre.

Flamel vero alchimista oppure inventato? La data che ha costruito la figura di Flamel è il 1612 quando viene pubblicato a Parigi il libro Le livre des figures hiéroglyphiques ovvero il Libro delle figure geroglifiche. Da qui nasce tutto. I suoi viaggi, gli studi cabalistici, le formule tradotte, la pietra filosofale e l’immortalità. Ormai faceva parte di un sapere comune, di una storia accettata e adottata anche dallo stesso Newton. La ribalta arriva con nell’Ottocento con Victor Hugo, nel Novecento con il Surrealismo Breton e negli anni duemila con Harry Potter.

Bibliografia: Nicolas Flamel, Il Libro delle figure geroglifiche, Edizioni Mediterranee 1971 | Helmut Gebelein, Alchimia. La magia della sostanza, Edizioni Mediterranee 2009

Immagine: Targa sulla facciata della casa (fonte wikipedia)

La chiesa di San Giacométo. Leggende, incendi e miracoli

Rivo Alto, 25 marzo 421. Viene consacrata la chiesa di San Giacométo sulle rive del Canal Grande e nel punto in cui sarebbe sorto il ponte di Rialto. SI trattava della prima chiesa. Secondo la leggenda fu costruita per il voto di un carpentiere, un tale Eutinopo Greco, che si sarebbe rivolto al santo per domare un grave incendio e dal quale ne uscì illeso. Si bruciarono 24 case. Si conosce anche l’ora, era esattamente mezzogiorno. Così viene fondata Venezia.

E’ la data che secondo il Chronicon Altinate riguarda il primo insediamento nell’area di Rialto. Non si tratta di una vera cronica, con cronisti che raccontano i fatti che vedono o che hanno sentito, quanto piuttosto una raccolta – datata XI secolo – di documenti e leggende sulla nascita della città e sull’origine dei veneziani.

La chiesa sicuramente esisteva nel 1152 e a questa data è attestata la prima citazione documentata quando si parla di un Henricum Navigaiosum plebanum sancti Johannis et sancti Jacobi de Rivoalto. La data ufficiale di consacrazione invece risale al 1177.

La storia della chiesa è legata al mercato di Rialto. Un’iscrizione all’esterno dell’abside invita i commercianti all’onestà: Hoc circa templum sit jus mercantibus aequum pondera nec vergant nec sit conventio prava ovvero “intorno a questa chiesa sia equa la legge dei mercanti, giusti i pesi e leali i contratti”. Così il grande orologio, con un grande sole al centro, serviva proprio a tale finalità commerciale.

Nella notte del 9 gennaio 1514 l’intera area di Rialto fu quasi completamente distrutta da un altro incendio che lasciò indenne solamente la Chiesa di San Giacomo. Venne totalmente restaurata pochi anni dopo dal ricco Natale Regia. Nel 1532, dopo la sua morte, la nomina del nuovo pievano accende forti discussioni tra i Provveditori al Sale e il Patriarca di Venezia finché non si domandò direttamente al Papa di concedere al doge il giuspatronato su San Giacomo. E così avvenne.

Bibliografia: Giuseppe Tassini, Curiosità veneziane, Filippi Editore Venezia | https://www.museodellamusica.com/la-chiesa-di-san-giacomo-a-rialto

Immagine: Dipinto di Canaletto, 1725

Il piano politico di Wolsey. Pasticcini, indulgenza e un grande dragone per sbaglio

Dietro all’incontro di Francesco I ed Enrico VIII presso il Campo del drappo d’oro c’era lui, il cardinale Thomas Wolsey. Si trattava di una gara di sfarzo ma dal significato politico. La pace tra i due imperi e per il francese voleva dire portare dalla sua parte il re d’Inghilterra. L’incontro fu preparato dal cardinale in modo da mostrare la magnificenza di entrambe le corti e costituire così la base per una pace fatta di mutuo rispetto fra nazioni tradizionalmente nemiche. Pertanto ogni gesto, ogni broccato, ogni portata servita doveva rappresentare l’uguaglianza delle due parti. In apparenza una grande giostra che culminava con l’incontro tra i due re visti come due principi, in sostanza un accordo di pace.

Nel grande campo facevano stridore lo sfoggio dei nobili rispetto ai contadini e ai pastori che facevano pascolare le loro mandrie. Perfino il più umile dei domestici doveva sembrare un re ai loro occhi. In realtà erano state emesse delle ordinanze verso chiunque non avesse qualcosa da fare nella valle di abbandonare la valle entro sei ore, pena l’impiccagione. Ma la folla continuava a crescere, a decina di migliaia. Spettatori, curiosi, contadini e i residenti delle due città confinanti, di Ardres e Guines.

Alcuni numeri che danno l’idea del cibo che fu preparato per le giornate dal 7 al 24 giugno 1520. Furono macellate e mangiate 2.200 pecore – ovviamente locali – e furono preparati 1.350 pasticcini e svuotate 70 giare di marmellata di fragole.

Il 24 giugno Wolsey disse messa, fece calare su tutti un’indulgenza generale che perdonava tutti i presenti dai peccati commessi. Dopo un fuoco d’artificio lanciato per sbaglio a forma di dragone – e che fece scrivere e pensare a qualche messaggio di superstizione – i due re lasciarono il campo. L’incontro, senza dubbio, sbalordì i contemporanei ma non provocò i risultati politici sperati. I rapporti tra i due paesi peggiorarono presto perché nel frattempo il cardinale Wolsey aveva combinato un’alleanza con Carlo V che nello stesso anno dichiarò guerra alla Francia.

Bibliografia: Carolly Erickson, Il grande Enrico. Vita di Enrico VIII, re d’Inghilterra, Oscar Mondadori 2002

Immagine: Ritratto del cardinale Wolsey, 1585

Enrico e Francesco nella Val d’Or. Pantomime, buone maniere e molto vino

11 giugno 1520. Francesco I ed Enrico VIII si insediano con il loro seguito sui due lati opposti della Val d’Or, una vasta piana delle Fiandre tra Ardres e Guines. Queste due città erano vicine rivali in quanto la prima francese e la seconda inglese. In tutto c’erano 3.200 tende di cui 400 solo francesi. Francesco aveva fatto allestire una grande tenda di broccato d’oro che misurava diciotto metri di circonferenza, coperta da un telone di canapa decorato con motivi astrologici e stelle lavorate con sottilissima lamina d’oro. Dentro le pareti della tenda c’era quasi una foresta: piante d’edera e rami d’albero appena tagliati. Il tendone era sormontato da una grande statua d’oro di San Michele.

I due erano poco distanti ma fino al momento del duello – la giostra s’intende – non si incontrarono. Annunciarono il loro arrivo ciascuno con un messo ed Enrico inviò ovviamente Wolsey. Il grande evento denominato del Campo del drappo d’oro avvenne solo due giorni dopo, il 13 giugno. Al centro del campo era stato allestito un piccolo padiglione con sedie, cuscini e rinfreschi. Qui si sarebbe consumata la prima conversazione, le prime schermaglie a parole.

Così si trovarono i due re per il primo saluto. Gli accordi erano di avanzare lentamente, rimanere ognuno sul proprio cavallo, togliersi il cappello in segno di saluto così come “due combattenti in armi in procinto di scontrarsi con le lance”. Così si dovevano abbracciare senza smontare ma il baio di Enrico era troppo vivace quel giorno e allora i due dovettero mettere piede a terra e scambiarsi generosi quanto finti abbracci. Un cronista italiano presente alla scena giurò che i due si buttarono le braccia al collo per almeno una ventina di volte. I francesi piansero per l’emozione. Entrarono nel padiglione insieme, a braccetto, così per evitare il problema delle precedenze. Poi sopraggiunsero Wolsey e l’ammiraglio francese Bonnivet. Si passò quindi alla lettura delle condizioni fissare per l’incontro e i curricula di entrambi. Rotti gli indugi bevvero molto vino.

Bibliografia: Carolly Erickson, Il grande Enrico. Vita di Enrico VIII, re d’Inghilterra, Oscar Mondadori 2002

Immagine: Incisione di James Basire del 1774, da un dipinto ad olio del XVI secolo

Il Banco Giro di Rialto. Un prototipo di banca centrale, bancomat e soldi virtuali

A Venezia c’è un’osteria che si trova esattamente dove nel 1524 viene istituita la prima banca pubblica della Repubblica. Si trattava del cosiddetto Giro del Banco. Rimane in opera fino al 1806 e di fatto sopravvivendo alla Serenissima. Perché è stata creata questa struttura di tipo pubblico?

I banchieri privati stavano attraverso un periodo di fallimenti e il commercio per mare stava trovando difficoltà dovute alle aperture delle nuove rotte portoghesi. Così, in modo sperimentale, si decise di fondare una banca a capitale pubblico che potesse garantire la liquidità necessaria ai mercati di Rialto. Nel 1587 si procede con una nuova innovazione economica. Si costituisce anche il Banco della Piazza di Rialto al fine di permettere i versamenti di denaro senza un materiale trasferimento di monete. Così si continua la grande innovazione del banco di giro medievale che agevolava i pagamenti trasferendo somme da un conto all’altro dei depositanti. Sotto il portego avveniva gli affari. Nel 1619 divenne una istituzione permanente dello Stato e amministrata dal Senato il quale nominava tra i suoi membri il Depositario. Di fatto si trattava del prototipo della Banca Centrale. Due decenni dopo il Banco di Rialto venne assorbito dal Banco Giro.

La funzione principale del Banco Giro non era di prestare denaro quanto piuttosto provvedere a pagare somme cospicue per conto dei propri clienti che erano soprattutto ricchi commercianti. Per questi infatti era pericoloso fare acquisti al mercato portando con sé grossi quantitativi di monete. Così per gli uomini d’affari del tempo era molto più conveniente aprire un conto in uno dei Banchi presso il mercato di Rialto ed effettuare i pagamenti per l’importo richiesto ma senza portare la moneta. Era una sorta di bancomat del tempo. Il banchiere segnava nei propri registri la somma pagata ed effettuava la transazione. Questa era la cosiddetta moneta di banco.

Come funzionava? Il Banco Giro era quindi un banco di deposito, prestito e giro. Esercitava dunque sia la funzione di gestione della fiscalità e del debito pubblico che la raccolta del risparmio privato e la gestione dei pagamenti. Era sicuro, efficace e veloce. Perché Giro? Il banco garantiva i pagamenti tra i suoi creditori con una semplice partita di giro ovvero in moneta non contante che veniva registrata sui libri contabili del Banco.

Bibliografia: Karl Gunnar Persson, Storia economica d’Europa. Conoscenza, istituzioni e crescita dal 600 d. C. a oggi, Apogeo Education 2014

Immagine: Gabriele Bella, Il Bancogiro di Rialto, 1779 (Pinacoteca Querini Stampalia)

Il ritratto che segna la fine della parabola di Thomas Cromwell, cardatore di stoffa

Tower Green, 28 luglio 1540. Muore Thomas Cromwell, condannato a morte senza processo e giustiziato tramite decapitazione. I capi d’accusa: eresia e tradimento. Edward Hall, un cronista del tempo, riporta che Cromwell fece un discorso sul patibolo e che poi “sopportò assai pazientemente il colpo dell’ascia da parte di un rozzo miserabile boia che non fece affatto bene il suo lavoro”.

Cosa portò la morte del personaggio più in vista e più autorevole di tutta l’Inghilterra? L’organizzazione dei matrimoni e della politica. La regina Jane Seymour, la terza moglie, morì il 24 ottobre del 1537. Le trattative per il quarto matrimonio partirono immediatamente e Cromwell scelse la sorella del duca di Cleves, il tedesco Guglielmo. Il matrimonio, però, si rivela subito disastroso ed Enrico incarica Cromwell di trovare le corrette vie legali il divorzio. Gli avversari di Cromwell iniziano il loro gioco di pressione per mandarlo in rovina e ci riescono.

Holbein, al momento del suo arrivo, aveva visto andarsene Moro, Erasmo, Anna Bolena e adesso Cromwell. Praticamente tutti i suoi patroni. Il pittore conserva il suo ruolo a corte. Pare che Enrico si fosse molto lamentato nei confronti di Holbein per il ritratto poco attrattivo di Anna di Cleves. Il re aveva criticato Cromwell per averne troppo lodato la bellezza secondo lui del tutto assente in Anna. Charles de Marillac, l’ambasciatore francese, la descrisse dall’aspetto dignitoso, “alta e sottile, di media bellezza, di carattere modestissimo e gentile”. Non sappiamo quanto ci sia di vero ma certamente riferendoci alla datazione dell’opera, 1539, possiamo segnare questo come l’anno della discesa della parabola di Holbein e ancora di più di Cromwell.

Dopo l’esecuzione tutti i suoi onori gli vennero requisiti e venne pubblicamente proclamato che, d’ora in poi, l’ex primo ministro doveva essere esclusivamente chiamato: “Thomas Cromwell, cardatore di stoffa”. Holbein lo seguì tre anni dopo, il 7 ottobre 1543. Il cerchio così si chiudeva.

Bibliografia: Oskar Bätschmann and Pascal Griener, Hans Holbein, Reaktion Books 2013

Immagine: Ritratto di Anna di Cleves, 1539 (Louvre)

Hans il pittore del re e il ritratto all’italiana

Londra 1532. Ritorna in Inghilterra Hans Holbein dopo esserci stato la prima volta sei anni prima. Il suo primo arrivo lo si deve soprattutto a Erasmo da Rotterdam e a Tommaso Moro che infatti verranno immortalati dal pittore. Hans non è inglese ma tedesco, originario di Augusta per passare poi gli anni giovanili a Basilea. Cosa ci fa un pittore tedesco nell’Inghilterra di Enrico VIII? Il pittore di corte specializzato in ritratti.

Dal 1535 ricoprì l’incarico di ritrattista ufficiale della famiglia reale e dei nobili inglesi anticipando il grande ruolo sociale che avranno Tiziano e Rubens in seguito. Cosa ha in comune con loro? La capacità di afferrare la psicologia del personaggio, di imbrigliare l’anima nello sguardo e tratteggiare lo status di ogni persona. Più che ritratti erano delle fisionomie sociali, politiche e umane.

Durante il suo primo soggiorno in Inghilterra, Holbein trova gli incarichi all’interno del circolo di umanisti collegato a Erasmo da Rotterdam. Così figurano nella sua lista astronomi, ambasciatori, letterati, vescovi. Holbein si era fatto una posizione e un nome, le sue fortune crebbero al punto che nel 1531 aveva una casa a Basilea e due ad Augusta. Nel frattempo a Basilea era scoppiata l’iconoclastia e le rivolte contro questa ma la situazione non causa disagio al pittore visto che il consiglio riformista gli paga una rendita di 50 fiorini e gli commissiona gli affreschi nella Camera di Consiglio.

I clienti in Svizzera scarseggiano, ritorna in Inghilterra dove è ben accetto soprattutto da Anna Bolena e Thomas Cromwell, futuro primo ministro che stava preparando il nuovo matrimonio del re e la scissione della Chiesa anglicana. Enrico infatti stava realizzato un programma di patronato artistico con la finalità di glorificare sé stesso nel suo nuovo ruolo di capo supremo della Chiesa d’Inghilterra.

Holbein nel 1536 risulta già essere il “pittore del re” e percepisce un salario annuo di 30 sterline. I ritratti risultano nella classica impostazione a mezzo busto, che richiamano la personalità del personaggio alla fiamminga con la posa di tre quarti. Il vivido realismo si unisce alla cura maniacale per le vesti e la psicologia dello sguardo e del volto. Questo genere di pittura farà la fortuna della ritrattistica dei signori italiani soprattutto di area veneta.

Bibliografia: Oskar Bätschmann, Pascal Griener, Hans Holbein, Reaktion Books 2013

Immagine: Autoritratto 1542, pastello su carta (Uffizi)

La scalata di Thomas. Fabbro, mercenario, spia, banchiere, cancelliere

La storia è piena di esempi di vite formate per una incredibile combinazione di competenze, fortuna e destino. Certamente, per quasi tutta la sua vita, Thomas Cromwell doveva averle dalla sua parte. Nasce a Putney nel 1485, figlio di Walter Cromwell fabbro e mastro birrario che aveva una piccola proprietà. Il suo destino era segnato: continuare la professione del padre. Anche se i documenti sono pochi in questa prima fase sappiamo che fuggì in Italia dove si arruola come soldato mercenario partecipando forse con le truppe francesi alla battaglia del Garigliano del 1503.

Come apprendiamo dalle novelle di Matteo Bandello, passa per Firenze dove viene notato dal banchiere Frescobaldi che subito diventa il suo protettore. Rimane in Italia, impara la lingua oltre a quelle che già conosceva: inglese, latino e francese. Abbandona la carriera militare, non per lui, e si scopre abile nella finanza. Dai Frescobaldi venne inviato ad Anversa per un affare di spionaggio. Cose da banchieri.

Ritorna in Inghilterra e nell’agosto del 1514 viene assunto dal cardinale Wolsey. A questo punto la scalata fu esponenziale. Studia legge e nel 1523 entra nel Parlamento e iniziò la sua vita politica. Si mette in mostra per la sua abilità negli affari e nella finanzia e infatti ricopre il compito di esattore di tasse. Come naturale conseguenza si mette a fare egli stesso il banchiere. Nel 1530 morto Wolsey, primo ministro, divenne lui il consigliere più influente del re fino a diventare dopo appena un anno il suo consigliere privato nel 1531, cancelliere dello scacchiere nel 1533, vicario generale nel 1534, e gran ciambellano nel 1539. Nel 1540 gli venne concesso il titolo di conte di Essex. Gli affari di stato e di Enrico VIII sono in mano di Thomas.

Bibliografia: https://www.treccani.it/enciclopedia/cromwell-thomas-conte-di-essex_%28Enciclopedia-Italiana%29/ | Hilary Mantel, Wolf Hall, Fazi editore 2014

Immagine: Hans Holbein il Giovane, Ritratto di Thomas Cromwell, 1532 – The Frick Collection

Da Federico a Federico. Nostalgie per la domus Iocosam

Urbino, primavera 1482. Il duca Federico da Montefeltro scrive due lettere indirizzate a Federico Gonzaga. Nello scambio si vede come il marchese solleciti il duca a visitare Mantova per vedere le “reliquie” della Cà Zoiosa che qualche decennio prima lo aveva ospitato, educato e cresciuto.

Nel 1494, anno che si riferisce al dipinto di Domenico Morone che celebra la cacciata dei Bonacolsi, la struttura è ancora nella sua posizione. Ovvero confinante su tre lati con vie pubbliche e sul quarto lato con il prato di Castello. La domus Iocosam in un atto notarile viene inoltre citata e attestata vicino alla Cattedrale.

A questa data l’edificio, visto il termine usato, sembra essere ancora presente ma in cattive condizioni. La sua sorte è ormai segnata. E infatti nel 1549, in occasione della creazione dell’Armeria e del primo teatro stabile di corte ad opera del Bertani, si mette fine agli ultimi resti e alla storia della scuola di Vittorino da Feltre.

Il 1482 è l’ultimo anno di vita di Federico da Montefeltro che morirà il 10 settembre. In questo stesso anno è capitano generale per l’alleanza tra Ferrara, Firenze, Milano e Napoli nella guerra del sale contro la Chiesa e Venezia. A mettere fine ai suoi giorni fu una malattia infettiva, probabilmente malaria.

Bibliografia: Vanne Manfrè, Un’indagine sulla Cà Zoiosa, in Civiltà Mantovana, n.136, anno XLVIII | Bernd Roeck, Andreas Tönnesmann, Federico da Montefeltro. Arte, stato e mestiere delle armi, Einaudi 2009

Immagine: Doppio ritratto dei duchi di Urbino – Uffizi, 1472