Omicidio, diplomazia e nuovo Rinascimento. Marcello Fogolino tra Venezia e Trento

Vicenza. Fogolino nasce negli anni ottanta del Quattrocento e diventerà l’artista che, più di ogni altro, rimarrà al servizio del vescovo – e principe – Bernardo Clesio. Insieme a Romanino e ai fratelli Dossi afferma la pittura rinascimentale nel Trentino. Sicuramente la sua partenza si pone fra le pale d’altare di Bartolomeo Montagna e le forme robuste e romane di Pordenone.

La sua formazione avvenne probabilmente presso il padre pittore prima di passare 8 anni a Venezia. Nel 1526 viene accusato, insieme al fratello Matteo, dell’omicidio di un barbiere in Friuli. Perché lo avranno fatto? una rissa? una risoluzione di conti personali? Vengono chiamati a presentarsi in giudizio a Udine. Invece i due scappano e si rifugiano a Trento nel 1527. Pur di ottenere un salvacondotto – concesso e rinnovato più volte – i fratelli lavorano per il governo veneziano in cambio di informazioni politiche. Così in cambio della libertà i due fratelli inviavano alla Serenissima report di carattere militare sui movimenti delle truppe imperiali che minacciavano i confini veneziani. Una sorta di attività di spionaggio, al tempo già presente a Venezia una rete capillare e molto organizzata.

Di Fogolino non si conosce molto, sicuramente più del suo ruolo di diplomatico segreto rispetto alla sua professione di pittore. Non lasciò più Trento se non per viaggi sporadici e politici a Venezia. La sua attività, oltre al Castello del Buonconsiglio, nelle residenze e in altri castelli del Trentino, è diffusa e fanno capire la grande portata del suo lavoro. Nella città di Trento, in piazza del Duomo, sono visibili gli affreschi sulla facciata di Casa Cazuffi dimostrando la sua vicinanza ai modi operativi e alle forme del Pordenone, esperto in questo genere di rappresentazioni.

Del 1558 è l’ultimo documento di Fogolino. Si tratta di una lettera spedita a Trento da Innsbruck in cui si chiedevano notizie sul suo conto, in previsione di un incarico per decorare la residenza imperiale di quella città. Sarà stato ancora in vita a quella data?

Bibliografia: Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento italiano, a cura di Lia Camerlengo, Silvana Editoriale 2006

Riferimento: https://www.artribune.com/arti-visive/archeologia-arte-antica/2017/07/mostra-marcello-fogolino-castello-buonconsiglio-trento/

Immagine: Marcello Fogolino, Casa Cazuffi, 1530 circa (piazza Duomo, Trento)

Joseph Heintz il Vecchio ovvero “del Tintoretto praticon de man”

1660, Venezia. Marco Boschini – scrittore, pittore e incisore veneziano forse cresciuto nella bottega di Palma il Giovane – scrive le Carte del navigar pitoresco raccontando in versi le meraviglie di Venezia. Così scrive di Joseph Heintz – il Vecchio da non confondere con il Giovane, suo figlio – pittore svizzero, nato a Basilea, che nel 1593 dopo Roma e Firenze soggiorna a Venezia. In realtà ci era già stato nel 1588. Nel 1597 si trasferisce ad Augusta, si sposa e diventa residente nella città tedesca alternando la sua presenza anche con la Praga di Rodolfo II.

Ritrattista e attento ai soggetti mitologici e allegorici, Heintz guarda soprattutto alle forme del cosiddetto “manierismo” italiano, in particolare a Correggio e Parmigianino. Una sintesi di queste maniere è possibile vederla nel dipinto Diana e Atteone proprio degli anni novanta. Le figure allungate, esili e dalle forme esagerate, saranno le caratteristiche della cosiddetta pittura rudolfina attiva nella Praga di fine Cinquecento.

Così Boschini descrive la vita di Heintz: Quel’altro Giosef Enzo, valoroso / Pitor che è cognossù per tuto el Mondo, / Che a Redolfo servì, digo al Segondo, / Imperator sì degno e glorioso, / Ghe intravegnè anche lu le cose istesse. / L’imperator el manda a studiar / A Roma el colorito e’l
desegnar : / Dove gran studio e gran fadiga el messe. / El capitè a Venezia, e quando el fu / Qua el restè morto, el se incantè de fato, / Col dir: ho perso el tempo, e che ogio fato ? / El studiete do ani, e forsi più, / Pregando pur l’imperial Corona / Volerse contentar che’ l studiasse; / E’l se fece pitor de prima classe: Perché el se elesse una maniera bona. / Del Pordenon i quadri e de Tician / Ghe serviva per unici esemplari ; / Col osservar i movimenti rari / Del Tentoretto, praticon de man.

Bibliografia: Daniele D’Anza, Joseph Heintz il Giovane. Pittore nella Venezia del Seicento, Università degli Studi di Trieste

Riferimenti: Marco Boschini, Carta del Navegar pitoresco 1660

Immagine: Joseph Heintz, Diana e Atteone

I coniugi de’ Rossi e l’esibizione delle etichette. Il doppio ritratto di Parmigianino

13 febbraio 1523, Parma. Pier Maria III de’ Rossi, conte di San Secondo, sposa Camilla Gonzaga, figlia di Giovanni Gonzaga signore di Vescovato e fratello di Francesco II Gonzaga. Camilla gli assicura una dote di seimila ducati, in denaro, gioielli, abiti e arredi.

L’anno precedente rientrò in possesso dei suoi feudi grazie all’intervento dello zio Giovanni de Medici sconfiggendo gli usurpatori nella battaglia di San Secondo. Nel 1527 invece entra al servizio come uomo d’arme di papa Clemente VII e di Carlo V. Nello stesso anno partecipa al sacco di Roma. Ferito viene spedito in difesa della Puglia. Nel 1530 è a capo delle truppe imperiali durante l’assedio francese di Firenze, nel 1535 è a Tunisi contro i Turchi, poi in Provenza e in Albania nel 1537 in soccorso dei veneziani.

Le vicende militari e umane di Pier Maria sono fondamentali per leggere il suo ritratto eseguito da Parmigianino proprio in questi anni. Il suo sguardo non incontra il nostro, guardo lontano. La sua figura è imponente, di tre quarti, e si staglia sullo sfondo di un broccato d’oro. Ricchezza, status, fierezza militare con l’elsa della spada in una mano e tracotanza maschile esibita nella brachetta eretta in primo piano. Sulla destra una piccola statua di Marte assume la stessa posa.

I tre figli sono tutti sull’altro pannello, quello che ritrae Camilla, letteralmente circondata quasi da un loro ballo. Un modello che non verrà replicato da Veronese per la nobiltà vicentina in cui i figli dei coniugi Porto-Thiene saranno suddivisi nei due pannelli.

Bibliografia: Correggio e Parmigianino. Arte a Parma nel Cinquecento. Catalogo della mostra (Roma, 12 marzo-26 giugno 2016), a cura di D. Ekserdjian 

Immagine: Ritratto dei coniugi de’ Rossi, 1535-40 (Museo Nacional del Prado – Madrid)

Piccola storia dei cieli stellati. Ferramola e la Chiesa di Santa Maria in Solario

Floriano Ferramola nasce a Brescia attorno al 1478, il padre era carpentiere e incisore del legno. Nel 1503 è già nominato come pittore nei documenti. A questa data risale la decorazione del quadrante della Torre dell’Orologio in piazza della Loggia.

Tra il 1513 e il 1524 il Ferramola lavora presso la Chiesa di Santa Maria in Solario,  costruita verso la metà del XII secolo come sacello interno al monastero destinato alla custodia del “tesoro” ovvero delle reliquie e suppellettili preziose. Il rinnovamento del sacello della chiesa, ad opera di Ferramola e della sua bottega, si sovrappone alla decorazione ad affresco già presente nel Quattrocento nell’aula superiore della chiesa. Oggi al centro è presente la Croce di Desiderio.

Il sacello, a base quadrata, si articola su due livelli e sulla sommità è coronato da un tiburio ottagonale contornato da una loggetta che ha solo funzione decorativa. I due ambienti, dotati di ingresso autonomo, sono collegati mediante un scala ricavata nello spessore della muratura sud.

Il piano inferiore è coperto da quattro volte a crociera che si reggono, al centro, su una grande ara romana marmorea – materiale di reimpiego – che reca l’iscrizione “DEO SOLI / RES PVBL(ICA)”, ovvero “la comunità (dedica) al Dio Sole”. Ferramola affresca un cielo stellato che richiama le stagioni medievali precedenti – la cappella degli Scrovegni e la Basilica superiore di Assisi di due secoli prima – e addirittura il Mausoleo di Galla Placidia. Forse il riferimento più vicino doveva essere la Cappella Sistina. Infatti, prima dell’intervento di Michelangelo – degli stessi anni – il progetto originario prevedeva la copertura della volta con lapislazzuli e stelle. Mentre Michelangelo toglieva le stelle, Ferramola le metteva. Una storia dei cieli.

Bibliografia: Renata Stradiotti (a cura di), San Salvatore – Santa Giulia a Brescia. Il monastero nella storia, Skira, Milano 2001

Riferimento: http://www.didatticarte.it/Blog/?p=2267

Immagine: Volta della Chiesa di Santa Maria in Solario,1520 circa (Complesso Musei di Santa Giulia)

Una camera delle dame a Brescia. Moretto, Martinengo e lo sfortunato matrimonio

Brescia, Palazzo Salvadego. Chiamato anche “palazzo della Fabbrica”, risulta già edificato nel XV secolo su un nucleo trecentesco, fu poi ricostruito da Giovan Battista e Antonio Marchetti nel XVIII secolo. Originariamente apparteneva alla famiglia Martinengo di Padernello, importante, molto numerosa, con quindici rami, grandi proprietari terrieri e di numerosi castelli su tutto il territorio.

La residenza fu bombardata nel marzo 1945 e in seguito ricostruita più volte. Una sua meraviglia si è conservata fino ad oggi ed la cosiddetta “Saletta delle nobili dame” realizzata su commissione di Girolamo Martinengo tra il 1539 e il 1543 quando ampliò il palazzo in vista del suo matrimonio con la contessa Eleonora Gonzaga. Le nozze furono celebrate il 4 febbraio 1543 nel Palazzo Ducale di Venezia.

Lui aveva vent’anni, appena tornato da Zara, dove si distinse per gli scontri contro gli Ottomani. Lei era la figlia del duca di Sabbioneta Ludovico e di Francesca Fieschi, sorella minore di Giulia, moglie di Vespasiano Colonna e contessa di Fondi. Il matrimonio fu di breve durata. Il 10 agosto 1545 Eleonora morì di parto, insieme con il figlio neonato. L’aria cupa dei Martinengo torna a colpire i membri della famiglia e il palazzo.

Si tratta di una camera immersiva, completamente decorata dagli affreschi che rappresentano otto gentildonne appartenenti alla famiglia Martinengo, ritratte a mezza figura e con parte del busto immerso nel paesaggio che fa da sfondo. Su tutte le pareti è raffigurata una balaustra sulla quale si affacciano le nobildonne, quasi a creare un dialogo illusorio con lo spettatore. Interamente decorati anche la volta e i costoloni. Un effetto di “camera totale” come le precedenti “camera picta” di Mantegna e le soluzioni di Giulio Romano a Palazzo Te. Le dame mostrano una vasta ricchezza di delle vesti, tutte diverse, e una tale attenzione per i tratti fisiognomici che farebbe escludere una loro idealizzazione.

L’autore è il bresciano Alessandro Bonvicino detto il Moretto, la cui famiglia – di modesti pittori – era originaria del bergamasco. La sua formazione è però tutta bresciana sulla scia di Vincenzo Foppa con uno sguardo attento alle novità venete di Lotto e Tiziano e ai modelli fiamminghi. Entro il 1520 infatti compie un viaggio nel Veneto. Morirà nel 1554.

Bibliografia: Pier Virgilio Begni Redona, Alessandro Bonvicino: il Moretto da Brescia, Brescia, Banca San Paolo di Brescia, 1988

Immagine: Camera delle gentildonne, Moretto 1539-1543 (Palazzo Salvadego – Brescia) | Fonte: giornale di Brescia

Il maiale mezanotto come unità di misura delle arti

Veneto, metà Cinquecento. Quanto costava un dipinto, una scultura, un progetto di un palazzo o un bene di lusso? Proviamo a scoprilo nella Vicenza di Palladio.

Vista la grande varietà di monete in circolazione al tempo utilizzate per scopi differenti – moneta aurea e di mistura per i pagamenti minuti – si prenderà come unità di misura il mezanotto ovvero il maiale di media stazza molto presente nel vicentino e il cui prezzo oscillava intorno ai 3 ducati.

Da qui partiamo con alcuni confronti tra salari, opere e maiali. Palladio, per un mese di salario nel cantiere della Basilica, percepiva 5 scudi d’oro ovvero 1,8 maiali. Una pala d’altare realizzata da Jacopo Bassano – il Martirio di Santa Caterina del 1544 – aveva un valore di 8 scudi ovvero 2,7 maiali. Un dipinto dello stesso Jacopo con meno soggetti – ritratto di due cani – e non con finalità di devozione aveva un valore di appena 15 lire ovvero 0,8 maiale. Ancora meno – 9 troni e 15 marchetti ovvero 0,5 maiali – era il valore di un libro illustrato come I discorsi del medico Mattioli. I guanti di lusso, esclusi gli inserti di pelliccia, costavano 7 troni ovvero poco più di un ducato. Un reperto romano – integro e non ruinato – come un busto antico poteva avere un valore di 300 ducati pari a 100 maiali; una croce di cristallo di rocca per il papa realizzata da Valerio Belli tocca la cifra record di 1.000 ducati ovvero 333,3 maiali.

Conclusioni: il valore di un’opera d’arte non era tanto legata al nome di chi la realizza quanto al procedimento e al costo dei materiali. In genere un bronzo o una scultura erano più cari rispetto ad un dipinto ma tutti venivano superati da un arazzo o un prodotto di oreficeria. Per i dipinti ci sono delle specifiche da fare. Infatti faceva la differenza il numero delle figure, la funzione e i materiali.

Bibliografia: La fabbrica del Rinascimento, a cura di Beltramini, Gasparotto, Vinco, Marsilio Arte 2021

Immagine: Tacuinum Sanitatis. Il XIV secolo

Castagne, palline e brogli. Il ballottaggio dal Medioevo a oggi

Voto segreto, ballottaggio e broglio. Termini attuali che però riprendono usi, costumi e gesti del passato e più precisamente del Medioevo. Il voto segreto era infatti una questione fondamentale per la Repubblica di Venezia ma anche per Firenze.

Il termine ballottaggio infatti deriverebbe dal fiorentino ballotta e dal veneziano balòta. Nel primo caso è sinonimo di “castagna” mentre nel secondo di “pallina”. Nella Firenze medievale c’era infatti la Torre della Castagna dove si riunivano i Priori delle Arti per decidere sui temi civici in questione. Le votazioni si svolgevano anche per intere giornate senza influenze dall’esterno. Il voto consisteva nel porre delle castagne in uno dei sacchetti che simboleggiavano le varie possibilità.

A Venezia invece il doge veniva eletto attraverso una complessa successione di passaggi che prevedeva la votazione diretta degli elettori e una nomina attraverso l’estrazione casuale di balòte ovvero sfere argentate e dorate. Come funzionava però? Si riuniva il Maggior Consiglio. I patrizi veneziani inserivano con il pugno chiuso, una ballotta rossa che indicava il voto positivo; una ballotta nera invece era il voto negativo.

Il termine broglio invece si riferisce a intrigo, maneggio e manomissione dei risultati al fine di ottenere cariche elettive. Dunque il sistema elettorale veneziano sembrava abbastanza sicuro per evitare intromissioni e corruzione. Eppure i membri del Consiglio si incontravano per tramare e scambiarsi promesse elettorali nel Brolo o “Brolio”, un giardino alberato che si trovava nei pressi del Palazzo Ducale dove avveniva la votazione.

Nella seconda metà del Settecento gli americani e i francesi adottarono il sistema elettorale sulla base di quello veneziano. Nei paesi anglofoni infatti l’urna elettorale è chiamata ballot box proprio come la cassa delle ballotte utilizzata a Palazzo Ducale.

Bibliografia: Federico Moro, Labirinto ducale. Un itinerario insolito nel Palazzo dei Dogi alla scoperta di simboli e millenari segreti, Elzeviro 2011

Immagine: Canaletto, Il doge e il gran consiglio 1763 (Sala del Maggior Consiglio)

Cito cito cito. La velocità del servizio postale al tempo delle Corti

Le informazioni nel Rinascimento veniva spedite attraverso i corrieri. Oltre ai servizi di posta privati – creati da famiglie come delle vere e proprie compagnie o aziende – ogni Corte poteva disporre di un proprio sistema postale organizzato attraverso i cavallari che partivano con il dispaccio da consegnare. Così, attraverso le cancellerie, le signorie rimanevano in contatto.

Quando la posta in gioca si faceva di importanza vitale era consuetudine annotare sull’involucro esterno di un plico anche l’ora di spedizione e di arrivo a ciascuna stazione di posta lungo il percorso. Uno dei primi casi noti è il servizio di corrieri istituito da Filippo Maria Visconti, duca di Milano alla metà del XV secolo che morirà nel 1447 aprendo il breve periodo della Repubblica Ambrosiana.

Sopra alla lettera veniva scritto “Cito cito cito cito volando dì et nocte senza perdere tempo” ovvero presto presto presto. Questo il pressante messaggio registrato il 6 febbraio 1495 su un cedolino del maestro di posta milanese Tommaso Brasca.

Bibliografia: Andrew Pettegree, L’invenzione delle notizie. Come il mondo arrivò a conoscersi, Einaudi 2015

Immagine: Camera degli Sposi, Mantova (dettaglio, Andrea Mantegna 1465-1474)

Lavinia Fontana la pontificia pittrice

Lavinia Fontana nasce a Bologna nella culla dell’arte del momento in cui confluivano le pitture di area lombarda, veneta e anche toscana. Queste si univano alla tradizione dei Parmigianino, Correggio e Pellegrino Tibaldi.

La storiografia dice che Lavinia sposa a 25 anni il pittore imolese Giovan Paolo Zappi ma lei pone la condizione di poter continuare la sua professione di pittrice avviata grazie al padre Prospero. Così Zappi, si dice, dovette rinunciare al proprio lavoro per diventare l’assistente della moglie.

Lavinia a Bologna diventa famosa come ritrattista per la grande accuratezza dei particolari, dell’abbigliamento e delle acconciature dei personaggi femminili. Lavinia pittrice di donne. Con Fede Galizia e Artemisia Gentileschi, Lavinia condivide l’attenzione verso le donne delle scene bibliche soprattutto Giuditta e Maddalena.

Così i successi la portano a Roma dove fu chiamata dal nuovo papa Gregorio XIII trasferendosi stabilmente nel 1603. Ormai era conosciuta come «la Pontificia Pittrice». Dieci anni dopo sentì una crisi mistica che portò lei e il marito a ritirarsi in un monastero. Lavinia morì a Roma nel 1614 dopo undici gravidanze – anche se otto non portate a termine – una vasta produzione soprattutto di ritratti di nobildonne, diplomatici e nobili mecenati, un centinaio di pale d’altare – almeno 30 sono quelle firmate – e diverse sculture in particolari di cavalli.

Bibliografia: Lisa Laffi, Cento passi di donne, Bacchilega editore, Imola 2017

Immagine: Testa di giovane 1606 (Galleria Borghese)

I rolli di Genova ovvero l’ospitalità estratta a sorte

Con il termine “rolli” si indicavano i ruoli ovvero gli elenchi dei palazzi che a partire dal 1576, su disposizione del Senato della Repubblica di Genova, potevano (e dovevano) ospitare le alte personalità che si trovavano in città. Gli elenchi indicavano i palazzi delle famiglie più illustri – suddivisi per dimensioni e prestigio – che si trovavano nelle cosiddette “strade nuove”.

Gli edifici erano catalogati in base al loro prestigio. In ogni rollo i palazzi erano suddivisi in tre o più categorie a seconda delle dimensioni, della capienza, del numero delle stanze. Questi venivano poi inseriti in diversi bussoli ed estratti a sorte per accogliere gli ospiti.

Il primo elenco redatto nel 1576 contava 52 edifici ma il successivo del 1588 superava già quota 100 e quello del 1599 ne contava addirittura 150. Poi calarono vistosamente nel Seicento e nel Settecento.

Tuttavia erano solo tre i palazzi che potevano ospitare alti dignitari e le personalità più importanti. Questi erano le abitazioni di Gio Batta Doria, il Palazzo Doria-Tursi di Nicolò Grimani e il Palazzo Lercari-Parodi. Nelle disposizioni si precisava che questi palazzi erano riservate a Papa, Imperatore re e legato Cardinali o altro Principe.

Bibliografia: Mauro Quercioli, I Palazzi dei Rolli di Genova, Libreria dello Stato, Roma 2008

Immagine: Via Garibaldi, Genova