Il diario di Samuel Pepys. Vita privata, cronaca e tanta onestà

La memoria, il ritratto, la famiglia. Non bisogna certo attendere il Cinquecento per poter osservare l’usanza di raccogliere le testimonianza tangibili della propria storia. Qui certamente c’erano i ritratti, le gallerie, i cicli sulla falsariga dei Cesari ma in precedenza bastava inserire di tanto in tanto qualche nota. Così cominciano le cosiddette ricordanze. Si tratta di un genere letterario nato nella Firenze del Trecento: non una vera e propria autobiografia quanto piuttosto dei testi ibridi in cui si mescolano le note commerciali della casa, della bottega, gli appunti, il diario di famiglia e fatti di cronaca locale.

Questa anteprima italiana si allaccia all’esempio inglese. In disaccordo con quanto potremmo pensare, si tratta di forme di scrittura privata molto poco confidenziale, sia su questioni private che sulla vita coniugale. Tutto viene registrato. Il pudore è minimo e il riserbo ancora meno. Sono i bambini ad essere descritti meglio registrando che una spalla è più grossa dell’altra e un ritardo eccessivo nel camminare a due anni. Queste ad esempio le inquietudini di John Greene.

Il testo esemplare è quello di Samuel Pepys, funzionario della Marina inglese negli anni 60 del Seicento. Il suo è un diario intimo autobiografico in cui Samuel “si guarda vivere” nella sua vita coniugale, le sue infedeltà e addirittura il suo corpo. Alcuni esempi diretti. Qui con la moglie Èlisabeth Marchand: “stamani mi sono alzato con parole tenerissime fra me e mia moglie […], ci siamo alzati entrambi col cuore pieno di gioia”. Ancora: “Se ne stava muta, mentre io la pregavo di quando in quando di venire a dormire. Poi il suo furore scoppiò: io ero un furfante, l’avevo tradita”. Ho omesso volutamente le citazioni di scenate tragicomiche tra i due. Il suo diario è un flusso di onestà, di esigenza di trasmettere la vera verità dei fatti fino a scontrarsi con il suo credo puritano. Promette di non bere vino e invece scrive: “E qui bevo vino secondo necessità, essendo malato per il desiderio di esso”.

Il diario inizia nel 1660 e si conclude il 31 maggio 1669. Samuel ha 36 anni. La coppia vive gli anni di una Londra travagliata: la peste del 1665, l’incendio del 1666, la guerra con l’Olanda nel 1667. Il lavoro è molto intenso, le lunghe ore di lavoro gli complicano la vista. Forse fu a causa di questo che non poté più proseguire il suo diario. Partono per una vacanza rigenerativa tra la Francia e i Paesi Bassi. Al ritorno la moglie Èlisabeth si ammala e muore il 10 novembre del 1669. Chiudo come avrebbe fatto Samuel, con una sua caratteristica frase di chiusura. “E ora a letto.”

Bibliografia: Peter Burke, Il Rinascimento europeo. Centri e periferie, Editori Laterza 2009 – Philippe Ariès, George Duby, La vita privata dal Rinascimento all’Illuminismo, Editori Laterza 1987

Immagine: Ritratto di Pepys, John Hayls – 1666

Il secolo dei giganti. Dalla camera di Palazzo Te ai denti in una spezieria

Il Cinquecento è il secolo dei giganti. Molte cose vengono poste sotto la lente del gigantismo e tale immagine diventa la celebrazione trionfale del singolo, di una società, di un palazzo, del potere. Il gigantismo, l’eccesso e l’esagerazione diventano anche strumenti per veicolare messaggi ironici, satirici o comici, dall’arte alla letteratura passando per la politica. Nello stretto giro di quindici anni compaiono una serie di gigantesche e tragicomiche creature: nel 1517 il gigante padano Fracasso nel Baldus di Teofilo Folengo, nel 1532 i giganti sono affrescati nell’intera stanza omonima nel Palazzo Te e nel 1532 esce l’edizione originale di Gargantua e Pantagruel. Il termine giganti viene usato anche per indicare uno scontro. La battaglia di Marignano del 1515, tra i francesi di Francesco I – coadiuvati da Venezia – e le truppe di Massimiliano Sforza, fu una tra le prime su suolo italiano davvero imponente muovendo circa 80.000 uomini tra fanti, cavalleggeri, cavalieri pesanti, balestrieri, lanzichenecchi e usando pezzi d’artiglieria e falconetti.

L’opera di Rabelais ha come titolo completo Gli orribili e spaventosi fatti e prodezze del molto rinomato Pantagruel re dei Dipsodi, figlio del gran gigante Gargantua. Viene celebrato il riso talmente potente da uccidete – letteralmente – e da dare il nome ad una città. La parodia è così straordinaria da anticipare alcune soluzioni dei viaggi di Gulliver e del Surrealismo.

RIFLESSI MANTOVANI: nella collezione dello speziale Filippo Costa vengono elencati dei denti di gigante. La spezieria “all’insegna del Re” era situata in contrada del Montegero e precisamente sulla “piazza ove si dice il pozzo del Rebaglio” ovvero sul lato ovest dell’attuale piazza Marconi. La gestione familiare si era avviata a Mantova agli inizi del Cinquecento ma l’attività era già attiva in San Martino dell’Argine. Filippo fu abilitato ad esercitare la professione di speziale il 2 aprile 1571. Fu Massaro dell’Arte per due volte. Presso la sua spezieria dà vita ad un museo eclettico “di cose aromatiche et pertinenti alla salute degli uomini”. Soprattutto piante ma anche qualche oggetto davvero curioso che viene citato dalla testimonianza di un altro medico, Giovanni Battista Cavallara.

I DENTI DI GIGANTI: “il Costa […] mi mostra due detni molari grossissimi che veramente paiono denti humani. Et esso li ha ricevuti per denti di giganti et per tali li tiene, et aggiunge che furono ritrovati nei lidi di Sicilia”. Probabilmente si trattava di grossi molari di Elephas antiquus mnaidriensis ovvero l’animale che ha generato il mito dei giganti monocoli. Questo tipo di elefante visse in Sicilia durante il Quaternario. Inoltre quando ne vennero ritrovati anche i fossili del cranio, oltre alle enormi dimensioni, questo presentava proprio una grande apertura centrale. Era il foro dell’apertura delle narici. Ma tanto bastava per accendere la fantasia. Il Cavallara ne dubitava già nel 1586.

Bibliografia: La scienza a corte. Collezionismo eclettico. Natura e immagine a Mantova fra Rinascimento e Manierismo, Bulzoni editore 1979 – G. B. Cavallara, Lettera dell’eccellentissimo Cavallara all’eccellentissimo Signor Girolamo Conforto, 1586

Immagine: Illustrazione di Gustave Doré, 1873

denti dei giganti

Denti di giganti, da Ulisse Aldrovandi, Monstrorum historia, Bologna 1642

Mantova romantica. La chiesa scomparsa, il Teatro Sociale e la nascita dei martiri

C’è una chiesa scomparsa che davvero sfugge sempre alla memoria collettiva. Si tratta della chiesa di Sant’Antonio di Padova collocata nella cosiddetta zona acquatica delle Concole, a fianco dell’attuale Teatro Sociale. Le due costruzioni sono collegate e la nascita dell’uno ha sancito la fine dell’altra. L’oratorio fu inaugurato l’8 dicembre del 1648 ovvero due mesi prima della Pace di Westafalia che chiudeva la Guerra dei Trent’anni. Fu commissionato due anni prima dal senatore Gian Francesco Paraleoni come ex voto dopo un periodo di carcerazione. L’architetto è Nicolò Sebregondi. Paraleoni morirà nel gennaio del 1649, un mese dopo l’apertura al culto. Di piccole dimensioni venne denominata Sant’Antonino. Nel 1822, sul lato destro della chiesa, si realizza il Teatro Sociale o, come veniva chiamato, il Teatro Nuovo della Società. Questo termine stava a indicare la società di cittadini economicamente facoltosi che si era costituita per l’impresa. Il teatro venne realizzato abbattendo le case che si trovavano in prossimità della chiesa, tra cui l’abitazione della famiglia Folengo. Era conosciuto con il nome di Casone Gervasoni. Al fine di dare maggiore rilievo al solenne nuovo teatro si decise di ampliare la zona circostante e nel 1823 di demolire la chiesa. Oggi, quella demolizione e quella mancanza, si possono leggere nello slargo intitolato prima a Sant’Antonino e poi a Teofilo Folengo.

L’immagine presentata è una stampa, un’acquatinta colorata a mano, raffigurante il Teatro Nuovo di Mantova nell’anno 1830 ovvero sette anni dopo la demolizione della chiesa. In primo piano si notano piccoli gruppi di persone in abiti d’epoca: il calesse in corsa (chissà se rispettava i limiti di velocità realmente imposti), il cane che si dà alla fuga, un uomo in abiti eleganti che pare osservare con un oculare alzato la bella dama con ventaglio al centro, vicino forse ad un artista con cartella e fogli sottobraccio. La chiesa, a sinistra del Teatro, è già sostituita con un altro edificio abitativo.
Il carattere della scena, paradossalmente così leggero e vezzoso, inquadra tuttavia la nascita di una nuova stagione mantovana ovvero quella romantica che richiama i Martiri di Belfiore. Nel 1823, mentre veniva demolita la chiesa, nasceva Carlo Poma. Gli altri del gruppo tra il 1812 (Tazzoli) e il 1827 (come Achille Sacchi e Giovanni Chiassi). Ma era ancora il momento dell’oculare, del ventaglio e delle serate al Teatro Nuovo.

Bibliografia: Le chiese della città di Mantova nel Settecneto. Repertorio, Quaderni di San Lorenzo 17, Mantova 2019 – http://www.lombardiabeniculturali.it/stampe/schede/M0230-00237/ 

Immagine: Veduta del Teatro Nuovo di Mantova, 1830 – Fonte Lombardia Beni Culturali

Il bizzarro Basilisco. Una storia di forme, collezioni e contraffazioni

Che forma aveva il terribile Basilisco? Dal greco basilìskos, piccolo re, veniva citata nell’antichità come il re dei serpenti. Anche per Plinio lo riferisce al mondo dei serpenti, anzi lo indica come non più grande di 20 centimetri ma mortale perché velenoso e capace di pietrificare con lo sguardo. Da qui comincia la sua fortuna e quella di molte altre creature che nel Medioevo mantengono le caratteristiche date da Plinio. Il monaco inglese Beda, nel VIII secolo d.C., è il primo ad aggiungere la leggenda della nascita del basilisco da un uovo deposto da un gallo anziano. Nel XII secolo Teofilo arriva a definire la ricetta per creare un basilisco attraverso la copula di due galli attraverso la cova di due rospi. Da qui iniziano ad attecchire la forma e le caratteristiche proprie dei galli. In alcune raffigurazioni presenta anche le ali. I nemici mortali del basilisco sono le donnole e gli specchi, forse riprendendo il mito di Medusa. La rappresentazione che ne dà Ulisse Aldrovandi riporta la dicitura “gallus monstrosus”. Nello stesso periodo, in linea con l’eclettismo culturale e il gusto per il bizzarro, la creatura inizia ad essere “realizzata” assemblando e deformando altri animali come le razze e inserendo due occhi di pasta vitrea. Un esempio nel Seicento lo offre il collezionista Lodovico Moscardo. Nel suo museo, oltre a trecento fra dipinti, centinaia di sculture, cinquemila tra monete e medaglie, riferisce il Maffei in Verona Illustrata che “… cose naturali ottimamente disposte, e venute in gran parte fin dal famoso Museo Calceolario. Serie di gemme, e di marmi, di miniere, e di minerali: coralli, piante, legni, erbe, amianto, calamita, terre, sali, balsami, gomme, cose impietrite, testacei, animali strani, e parti pregiate di essi, mostri e scherzi della natura, mumie e cocodrilli, e quantità di cose d’India”. E la figura proprio di un basilisco molto somigliante a uno degli esemplari di proprietà del Museo di Storia Naturale.

ALTRI FORTUNATI MOSTRI sono la manticora dal corpo rosso di leone, testa umana con tre ordini di denti, occhi rossi e una cosa aguzza simile allo scorpione. Pare si nutrisse di sangue umano. Potrebbe somigliare ad una chimera. L’anfisibena era invece un serpente a due teste poste alle due estremità del corpo e perciò in grado di muoversi in entrambe le direzioni. Entrambe queste creature vengono raffigurate da Pier Candido Decembrio, uomo di corte milanese e autore delle Vitae di Filippo Maria Visconti e Francesco Sforza.

LE FORME SI RIPRODUCONO: queste creature sono il frutto di una evoluzione dell’errore e della prima fonte che fantastica forme e diciture. Fa parte della loro natura essere un ibrido e un agglomerato di tradizioni diverse che si sono innestate sulle precedenti. Nel Medioevo le possiamo trovare come drolerie o ai margini dei codici miniati. E così, allo stesso modo, le ritroviamo nelle rinascimentali grottesche. Poi si preferito scegliere le forme giuste, tenere quelle più “potenti” e tralasciare le altre. Così si spiega la propensione a mostrarlo più come serpente o come drago che finirà poi su stemmi, insegne, araldica e nomi e simboli di città (Basilea).

SUGGESTIONI: a Mantova di sicuro interesse e spunto sono le raffigurazioni della Scalcheria nel Palazzo Ducale, autentico raffinato cosmo di mostruosità fantastiche, e alcune tracce di affresco ritrovati nella casa di via Fratelli Bandiera 10 che rimandano ad una creatura simile o ascrivibile alla forma di un basilisco e ad una manticora.

 

Bibliografia: La scienza a corte. Collezionismo eclettico, natura e immagine a Mantova fra Rinascimento e Manierismo, Bulzoni Editore 1979 – Ulisse Aldrovandi, Monstrum Historia – E. Marani G. Amadei, Antiche dimore mantovane, Mantova 1977 – Museo di storia Naturale di Verona https://www.verona-in.it/2004/12/02/museo-civico-di-storia-naturale-il-mistero-del-basilisco/

Immagine: Basilisco raffigurato in Ulisse Aldrovandi, Monstrum Historia, Bologna 1642

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Bestiario di Aberdeen, XII secolo

 

 

 

 

 

“Un giocattolo e cosa da ridere”. Torriani, Annibale Chieppio e la stagione degli automi

L’inventario dei beni di Annibale Chieppio, redatto il 29 aprile 1623, ci conduce all’interno delle stanze della sua abitazione ovvero l’attuale Palazzo d’Arco. Questo sarà la residenza della sua famiglia fino al 1740. Tra gli oggetti e le opere d’arte, in una delle camere presso l’oratorio, era presente “una bambina che balla da sé d’ottone con veste di raso cremisino guarnita con oro con un leuto in mano la quale è artificiosa in una cassetta di legno”. Non sappiamo la data di realizzazione ma dalla descrizione si intuisce essere un automa. Tra i quasi trecento oggetti inventariati è l’unico che fa parte della voce “bizzarria” o “strumenti scientifici” a parte un cannocchiale e una tazzettina di rinoceronte con il piede et piramide d’avorio. Gli automi non erano nuovi sulla scena artistica. Dalle statue meccaniche per l’organo di Strasburgo all’aquila di legno realizzata da Johannes Muller detto il Regiomontano passando per i disegni di Leonardo. Senza dimenticare i meccanismi degli orologi come quello di Praga. Le statue di Strasburgo, realizzate da Claus Karlé (o Karlen) tra il 1324 e il 1327, rappresentano un trombettieri e un venditore di brezel. Dalla metà del Cinquecento l’automatismo si trova nei giardini e nei banchetti per stupire e creare meraviglia.

Tuttavia è proprio l’orologeria che ammetteva le trasformazioni più sorprendenti. Un autentico portento in questo campo fu il cremonese Janello Torriani. Tra le tante invenzioni di questa mente poliedrica voglio ricordare una bambola che somiglia all’automa collezionato da Annibale Chieppio. Viene descritto come nobil matrona in atto di suonare il timpano e faceva parte probabilmente di una composizione più ampia. L’automa si muove lungo un percorso che disegna una stella a cinque punte, batteva il tamburo con un mazzuolo. Muoveva i piedi, ruotava il capo, muove gli occhi e la bocca. Nel Settecento furono aggiunti altri elementi come un vestitino di seta e un ventaglio al posto del tamburo. L’esemplare, in legno e ferro e alto 38 cm, potrebbe corrispondere a quello realizzato proprio da Janello nella seconda metà del Cinquecento. Così veniva descritto alla corte di Filippo II: fece una dama di più di una tercia di altezza, che posta sopra un tavola danza per tutta la sua superficie al suono di un tamburo che ella stessa va battendo, e dopo aver deambulato torna al punto di partenza. E anche se è un giocattolo e cosa da ridere, tuttavia mostra molto di quell’alto ingegno.

IPOTESI. Janello Torriani muore nel 1585 ovvero prima dell’apice raggiunto da Annibale Chieppio che nel 1595 diventa consigliere di stato. Tuttavia la sua presenza così stretta ad una personalità eclettica come quella del duca Vincenzo Gonzaga poteva portarlo alla conoscenza e all’interesse per tali bizzarrie. Entrambi gli automi si muovevano da sé e avevano le mani occupate in un’azione musicale.

DOMANDE IRRISOLTE. Non lo sapremo mai perché la bambola di Chieppio non si è conservata ma come ballava da sé? che movimenti faceva? faceva parte di una composizione più ampia? Annibale l’avrà acquistata per una delle figlie? gli sarà stata proposta da un contatto della corte scientifica di Vincenzo? sarà una manifattura italiana nello stile di Janello o una europea, forse tedesca? Tante le supposizioni che portano per strade molto diverse ma soprattutto nella vita privata di Annibale e della sua famiglia.

Bibliografia: Guido Rebecchini, Private collectors in Mantua 1500-1630, Sussidi Eruditi, Roma 2002 – Archivio di Palazzo d’Arco, fondo Chieppio-Ardizzoni, b.83 – Janello Torriani, Genio del Rinascimento, a cura di Cristiano Zanetti 2017

Immagine: Automa, seconda metà del XVI secolo, Milano

testa automa

automa intero

Cavalli, teatri e scuderie. La strana combinazione a Mantova

C’è una strana e curiosa relazione a Mantova tra il teatro e i cavalli. Per prima cosa dobbiamo trasferirci nell’area del Teatro dei Comici e temporalmente siamo 3 anni dopo la nascita di Shakespeare. Nel 1567, sul lato del Cortile della Cavallerizza fronte lago, viene allestito un locale per le rappresentazioni a cui potessero accedere a pagamento anche i cittadini. Attraverso un corridore coperto era collegato alla Rustica. Prende il nome di Scena Pubblica. Non a caso c’è una via vicino al Palazzo che ha questo nome. Secondo Claudia Buttarelli la data è da posticipare al 1596 in quanto nella pianta – datata in questo anno – non compare la legenda con l’indicazione della scena pubblica. A questa data sarebbe da ascrivere all’opera del Viani.

Il teatro comunque era composto da apparati in legno. Nel 1675 viene rifatto adeguandosi ai nuovi principi costruttivi: diversi ordini di palchetti, indipendenti e uno sopra l’altro. Dopo il 1733 sarà chiamato Teatro Vecchio. L’ultimo documento si riferisce al 1791. Cinque anni dopo, in pieno assedio francese, il teatro viene demolito per ricavane il legname. La stessa sorte toccherà alla copertura che il Bibiena aveva realizzato per il Cavallerizza. Il teatro si troverà, e continuerà ad esistere, proprio dietro alle Scuderie Reali che vengono costruite nell’ultimo quarto del Cinquecento per volere di Guglielmo Gonzaga. Oltre alle scuderie che ospitavano quasi cento cavalli, c’erano spazi funzionali come fienili e magazzini. Nel Settecento l’area sarà adibita per il corpo di cavalleria dell’esercito che ospiterà fino a mille tra cavalli e uomini. Nell’Ottocento le Scuderie Nazionali vengono demolite e diventano l’ennesima caserma austriaca in città.

Il famoso Globe Theatre, teatro di Londra nel quale recitò la Compagnia di Shakespeare, venne realizzato nel 1598 ovvero circa trent’anni dopo quello dei comici di Mantova. Dura poco meno di quindici anni perché nel 1613 viene distrutto da un incendio. Triste sorte di molti teatri data la loro natura lignea.

Un’altra curiosa relazione tra teatro e cavalli si trova nel Palazzo d’Arco. Il teatro si trova a sinistra del palazzo nell’area delle scuderie. Internamente sono conservate le colonne di ordine tuscanico e gli abbeveratoi mentre esternamente la precedente destinazione si intuisce da una testa di cavallo in terracotta posta verso il cortile interno. Già nel 1953 lo spazio viene concesso dalla Contessa Giovanna d’Arco all’Accademia Teatrale Francesco Campogalliani. Il teatro venne realizzato a spesa della stessa marchesa è aprì per la prima volta il 14 maggio del 1962.

 

Bibliografia: Scheda tecnica del Museo dei Vigili del Fuoco di Mantova – http://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/MN200-00003/ – https://www.teatro-campogalliani.it/about-us/theater/ 

Immagine: Spazio esterno del Teatro del Palazzo d’Arco (fotografia di Lombadia Beni Culturali) 

Corte Vecchia a testa in su. Sette soffitti e un pavimento da ricordare

Quando si visita un palazzo spesso guardiamo solo quello che abbiamo di fronte tralasciando di soffermarci sul soffitto e sul pavimento. Il Palazzo Ducale è un tale labirinto che mette alla prova i sensi e lo sguardo facendo compiere esercizi ginnici al collo e alle competenze visive. Ho voluto raccogliere una serie di soffitti che spesso tralasciamo perché considerati “minori”, perché non è possibile fermarsi date le dimensioni ridotte oppure per una più semplice questione di tempo.

Nella Sala degli Arcieri, ricavata da un corpo di fabbrica addossato alla Domus Nova, Anton Maria Viani progetta agli inizi del Seicento l’Appartamento ducale per Vincenzo I. Con il titolo di Prefetto alle fabbriche, Viani si occupa di progettare ogni cantiere ducale comprese le scenografie e gli apparati effimeri teatrali. Il soffitto, sostenuto da robusti mensoloni e arpie capricciose, è un lenzuolo quadrato di cielo che ammicca a quello mantegnesco per vaporosità delle nuvole. Mancano le dame, il gioco dei putti e il pavone. Nella vicina Galleria degli Specchi il soffitto voltato accoglie uno dei più estesi cicli di affreschi del palazzo realizzato per Ferdinando Gonzaga. La supervisione è dell’onnipresente Viani. La parte centrale della volta rappresenta il Carro del Giorno (di scuola emiliana), il Concilio del dèi e il Carro della Notte (di pittori bolognesi collaboratori Guido Reni). I due lunettoni alle estremità sono opera di Karl Santner (Le arti liberali) e forse proprio di Viani (Apollo e le Muse). Qui il gioco è ricordarsi tutti i sommi scrittori in basso a destra e a sinistra. Nella Sala di Giuditta si conservano le quattro grandi tele scure del pittore Mango con storie di Giuditta. Le lesene che suddividono le tele sono rinascimentali e servivano per ospitare i Trionfi di Cesare di Andrea Mantegna. Nella Sala del Labirinto bisogna fermarsi a testa in su. Il grande labirinto vi è stato spiegato tante volte ma quasi sicuramente non vi ricordate della scritta in latino al centro che recita “Dedalee industrie et Teseie virtutis” circondata da nodi d’amore. Nell’appartamento di Guglielmo, il padre di Vincenzo, il Gabinetto dei Mori è un piccolissimo ambiente di compressione. Il soffitto ligneo, riccamente intagliato, custodisce al centro una Venere sostenuta da amorini datata 1657 ed eseguita dal pittore fiammingo Daniel Van den Dyck, per tre anni prefetto alle fabbriche per Carlo II Gonzaga-Nevers. Lo spazio successivo, la Camera dei Falconi, presenta una volta affrescata con un gioco illusionistico di putti e falconi realizzata da Lorenzo Costa il Giovane. I putti giocano con la spazio pittorico sporgendosi con una gamba fino ad uscire dal loro perimetro di competenza. Nella Sala dei fiumi, reinterpretata in chiave teatrale come una grande serra di legno, le volte sono affrescate dal pittore veronese Anselmi. Il riquadro centrale è il luminoso Fetonte chiede il carro del Sole ad Apollo.

Chiudiamo con uno sguardo verso il pavimento. Dalla Sala dell’Aquila a quella del Leone si è conservato l’antico cotto. Non ci accorgiamo quasi mai ma usciamo da Corte Vecchia con un po’ di emozione sotto le suole.

 

Bibliografia: Stefano L’Occaso, Palazzo Ducale, Electa 2011 

Immagine: Fratelli Alinari, particolare del soffitto con l’impresa del crogiolo, 1860-1880

Mantegna, il Magnifico e il modello per il giardino di San Marco

Nel 1483 Lorenzo il Magnifico visita Mantova e si reca ad incontrare Andrea Mantegna. In questo periodo, all’interno del peregrinare dell’artista tra un’abitazione e l’altra, si è da poco trasferito nella contrada della Pusterla o di San Domenico per poter seguire i lavori nella fabbrica della sua futura abitazione di via Acerbi. I lavori erano cominciati nel 1476 su un’area forse donata come regalia da Ludovico II per la fine dei lavori nella Camera degli Sposi. Mantegna per questa attesa risiede in una delle case dei Malatesta per circa 14 anni. I lavori

Il signore di Firenze se driciò a casa de Andrea Mantegna dove la vite cum grande appiacere alcune pitture d’esso Andrea, et certe teste di relevo cum molt’altre cose antiche, che pare molto se ne diletti.

Mantegna accoglie Lorenzo all’interno della fabbrica di via Acerbi anche se non ultimata. Probabilmente gli presentò il progetto e l’idea di utilizzare il cortile al centro della dimora come museo per poter allestire la sua collezione di statue e reperti antichi. Il cortile – che unisce e sublima la forma del cilindro a quella del cubo, una dentro l’altra – può aver sollecitato la mente artistica e sensibile di Lorenzo che qualche anno dopo realizzerà una sorta di “palestra di scultura” nel giardino di San Marco. Già dal Medioevo esisteva un’area verde ed era conosciuto con l’appellativo di Cafaggio ovvero riserva di caccia. Proprio qui nel Quattrocento si svilupperà il quartiere mediceo con il Palazzo Medici e alle chiese patronali di San Lorenzo e San Marco. All’interno del giardino, su idea del Magnifico, si esercitavano i giovani scultori emergenti a modellare e creare le loro opere regolandosi sul gusto di corte e sui modelli antichi. Qui, in questa palestra che lo stesso Lorenzo sovrintendeva, troveranno spazio i molti allievi di Domenico Ghirlandaio tra cui Michelangelo.

Bibliografia: Gianfranco Ferlisi, Ab Olympo. Il Mantegna e la sua dimora, Provincia di Mantova 1995

Immagine: Parte del cortile della dimora di via Acerbi 

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Giardino di San Marco nella pianta del Buonsignori, 1584

L’isola di Thule. Leggende, mostri e popoli antichi

Antonio Diogene nel II secolo d.C. scrive Le incredibili meraviglie al di là di Tule. L’isola di Thule viene citata per la prima volta da un viaggiatore greco di nome Pitea che, salpato da Marsiglia nel 330 a.C., si avventura per un’esplorazione dell’Atlantico del Nord. Terra di fuoco e di ghiaccio dove il sole non tramontava mai. La più famosa immagine è invece del 1539 in un documento dal nome Charta Marina ad opera di Olaus Magnus. Qui l’isola viene chiamata Tile e accanto vengono raffigurati una balena, un’orca e un “mostro visto nel 1537″. Altri navigatori, come la dinastia degli Zen, hanno raccontato di altre isole leggendarie sempre nell’estremo settentrione del mondo conosciuto. Frislanda, Estlanda, Eslanda, Engroveland, Estotiland, Icaria. Nicola Zen le cita in un testo che pubblica nel 1558.

Il mito della Thule, ovvero come la terra più a settentrione, ha generato nel tempo molte ipotesi di identificazione. Groenlandia, Islanda, Estonia oppure un tratto della Norvegia. Ultima Thule, così la definiva Virgilio, proprio per definire la sua posizione estrema nel senso di ultima terra conosciuta e conoscibile. Tular in etrusco significa “confine”.

Questo mito si è poi confuso con quello degli iperborei ovvero il popolo che vive oltre Borea, la personificazione del vento del Nord. Questa terra lontanissima, che per gli antichi era a nord della Grecia, ha prodotto numerose testimonianze e ipotesi che hanno cercato di definire meglio la posizione. Ecateo di Abdera nel II secolo a.C. li collocava su un’isola dell’oceano, non minore della Sicilia come estensione e dalla quale di poteva vedere la luna da vicino. Esiodo invece presso le cascate dell’Eridiano ovvero a nord del Po. Nel corso del tempo diventa un’espressione che riporta al concetto antico di limite.

Bibliografia: Umberto Eco, Storia delle terre e dei luoghi leggendari, Bompiani 2013

Immagine: Abraham Ortelius, Islandia 1590

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Isola di Thule raffigurata da Olao Magno, 1539

 

Libertas, tranquillitas, otium. Nella torre la biblioteca di Montaigne

La biblioteca nel Medioevo e nel Rinascimento diventa un rifugio dal mondo, un luogo di meditazione, intimità ed esperienza individuale con sé stessi e con il libro. L’esempio più commovente è quello di Montaigne. Nel 1579 vende la sua carica di consigliere al Parlamento di Bordeaux, nel 1580 ritorna al suo castello nel piccolo comune nel dipartimento della Dordogna e fa dipingere un’iscrizione sui muri della sua biblioteca.

L’iscrizione in latino recita: Nell’anno di Cristo 1571, all’età di trentotto anni, alla vigilia delle calende di marzo, anniversario della sua nascita, Michel de Montaigne, già molto tediato dalla schiavitù della corte del parlamento e delle cariche pubbliche, sentendosi però ancora nel pieno della vita, giunse alla conclusione di riposarsi sul seno delle dette Vergini nella calma e nella sicurezza. Egli vi percorrerà i giorni che gli restano da vivere. Sperando che il destino gli consentirà di portare a termine questa esistenza, questi dolci ritiri paterni, egli li ha consacrati alla sua libertà, alla sua tranquillità e al suo riposo.

La sua residenza era davvero ritirata e ancora oggi il comune conta poco più di trecento persone. La biblioteca, che lui chiama “luogo ritirato”, è al terzo piano di una torre, il luogo più areato della casa e separata dall’alloggio principale da un cortile. Non un luogo dove chiudersi in solitudine ma nel quale poter dare ordini alla sua casa e avere il potere sul mondo che vede da tre finestre. Da qui vedeva il castello, la corte, il pollaio, le oche, le galline e le anatre. Più in fondo le colline del Périgord.

Così scrive: “sono sull’ingresso e vedo sotto di me il mio giardino, il cortile rustico, la corte e la maggior parte dei locali”. I libri sono disposti su cinque file e si muovono tutto intorno in uno spazio rotondo. Come procedeva a scegliere un libro? “Sfoglio ora un libro ora un altro, senza ordine e senza programma e là; un momento fantastico, un momento annoto e detto, passeggiando, le mie idee come queste”.

Sulle pareti ha scritto frasi greche e latine, poi coperte in parte con altre tratte dalla Bibbia. Sulle travi del soffitto altre 57 frasi estratte dai suoi mille libri. Oggi ne sono giunti solo 76. I suoi pensieri e la sua memoria erano sempre governati dai grandi scrittori del passato.

 

Bibliografia: Philippe Ariès, Georges Duby, La vita privata dal Rinascimento all’Illuminismo, Laterza 1987

Immagine: la torre del Castello di Montaigne