Com’è triste Isabella senza Giorgione. Due lettere su di un notturno

Autunno 1510, Venezia. Giorgione è morto a causa della peste che ha colpito la città. Il suo corpo non ha avuto gli onori della sepoltura e della celebrazione ma è stato gettato in qualche fossa comune, insieme a quelli di chissà quanti. La notizia della sua morte ha, fin da subito, fatto il giro delle altre città varcando i confini della Serenissima e giungendo alle orecchie di Isabella d’Este che non vedeva l’ora di far crescere la sua collezione.

Come? Il 25 ottobre Isabella scrive a Taddeo Albano, suo corrispondente a Venezia, di volere un dipinto – un notturno – ancora presente nello studio dell’artista. Alla morte di Giorgione infatti la sua casa viene saccheggiata e le opere d’arte rimaste prese dai collezionisti. Non poteva mancare Isabella che sa e chiede di avere un notturno.

Così scrive lei: Intendemo che in le cose et heredità de Zorzo da Castelfrancho pittore se ritrova una pictura de una nocte molto bella et singulare. Quando cussì fusse, desideraressimo haverla. Però vi pregamo che voliati essere cum Lorenzo da Pavia, et qualche altro che habbi iudicio et designo, et vedere se l’è cosa excellente, et trovando de sì operiati il megio del magnifico messer Carlo Valerio nostro compatre charissimo, et de chi altro ve pareria, per apostar questa pictura per noi, intendendo il precio, et dandone aviso. Et quando vi paresse di concluder il mercato, essendo cosa bona per dubio non fusse levata da altri, fati quel che ve parerà, che ne rendemo certe fareti cum ogni avantagio et fede, et cum bona consulta.

Così risponde lui, Taddeo Albano, il giorno 8 novembre: A che rispondo a Vostra Excellentia che detto Zorzo morì più dì fanno da peste, et per voler servir quella ho parlato cum alcunj mieij amizj che avevano grandissima praticha cum luj, quali mi affirmano non essere in ditta eredità tal pictura. Ben è vero che ditto Zorzo ne feze una a messer Thadeo Contarinj, qual per la informatione ho hautta non è molto perfettasegondo vorebe quella. Un’altra pictura de la nocte feze ditto Zorzo a uno Victorio becharo, qual per quanto intendo è de meglior desegnio et meglio finitta che non è quella del Contarinj, ma esso becharo al presente non si atrova in questa tera, et sichondo m’è stato afermato né l’una né l’altra non sono da vendere pretio nesuno, però che li anno fatti fare per volerlj godere per loro. Siché mi doglio non poter satisfar al dexiderio de quella.

Questa volta qualcuno è arrivato prima di Isabella che non poté essere accontentata.

Bibliografia: Enrico Maria Dal Pozzolo, Labirinti del cuore. Giorgione e le stagioni del sentimento tra Venezia e Roma, Artem 2017

Immagine: Giorgione, autoritratto 1510 (Museo di Belle Arti, Budapest)

Il teatro delle pitture. Storia di una collezione oggi diventata il Kunsthistorisches

Londra 1636. In questo anno avvengono diversi fatti tutti collegati al collezionista Bartolomeo della Nave. Viene stilato il suo inventario, una parte delle opere sta per essere venduta a Carlo I d’Inghilterra e muore improvvisamente lo stesso Bartolomeo della Nave.

Qualche anno dopo Leopoldo Guglielmo d’Austria fa realizzare al pittore Daniel Teniers un catalogo di incisioni tratte da 243 dipinti di autori italiani e fiamminghi, scelti tra gli oltre mille appartenenti all’arciduca. Nei vent’anni successivi vennero pubblicate altre due edizioni. La raccolta venne chiamata Theatrum Pictorium ovvero il teatro delle pitture.

L’incisione numero 1 rappresenta un porto, dipinto da Teniers, e la didascalia – in olandese, francese, latino e spagnolo – informa che il libro è in vendita ad Anversa presso Jacobus Peeters. L’incisione 245 è a doppia pagina e rappresenta il pittore Teniers mentre sta dipingendo la galleria dell’arciduca Leopoldo Guglielmo. La sua celebre collezione viene curata da Jan van den Hoecke, pittore e disegnatore di cartoni d’arazzo di epoca barocca. Nel 1651, alla morte del fiammingo, viene eletto proprio David Teniers come nuovo conservatore.

In seguito l’arciduca destinò la sua collezione al nipote Leopoldo I d’Austria e ancora oggi si leggono i frutti di quel passaggio perché gran parte della raccolta ha formato a Vienna il Kunsthistorisches Museum.

Bibliografia: Il collezionismo d’arte a Venezia. Il Seicento, a cura di Stefania Mason e Linda Borean, Marsilio Edizioni 2007

Immagine: Catalogus dei pittori del Theatrum Pictorium

Il secolo dei giganti. Dalla camera di Palazzo Te ai denti in una spezieria

Il Cinquecento è il secolo dei giganti. Molte cose vengono poste sotto la lente del gigantismo e tale immagine diventa la celebrazione trionfale del singolo, di una società, di un palazzo, del potere. Il gigantismo, l’eccesso e l’esagerazione diventano anche strumenti per veicolare messaggi ironici, satirici o comici, dall’arte alla letteratura passando per la politica. Nello stretto giro di quindici anni compaiono una serie di gigantesche e tragicomiche creature: nel 1517 il gigante padano Fracasso nel Baldus di Teofilo Folengo, nel 1532 i giganti sono affrescati nell’intera stanza omonima nel Palazzo Te e nel 1532 esce l’edizione originale di Gargantua e Pantagruel. Il termine giganti viene usato anche per indicare uno scontro. La battaglia di Marignano del 1515, tra i francesi di Francesco I – coadiuvati da Venezia – e le truppe di Massimiliano Sforza, fu una tra le prime su suolo italiano davvero imponente muovendo circa 80.000 uomini tra fanti, cavalleggeri, cavalieri pesanti, balestrieri, lanzichenecchi e usando pezzi d’artiglieria e falconetti.

L’opera di Rabelais ha come titolo completo Gli orribili e spaventosi fatti e prodezze del molto rinomato Pantagruel re dei Dipsodi, figlio del gran gigante Gargantua. Viene celebrato il riso talmente potente da uccidete – letteralmente – e da dare il nome ad una città. La parodia è così straordinaria da anticipare alcune soluzioni dei viaggi di Gulliver e del Surrealismo.

RIFLESSI MANTOVANI: nella collezione dello speziale Filippo Costa vengono elencati dei denti di gigante. La spezieria “all’insegna del Re” era situata in contrada del Montegero e precisamente sulla “piazza ove si dice il pozzo del Rebaglio” ovvero sul lato ovest dell’attuale piazza Marconi. La gestione familiare si era avviata a Mantova agli inizi del Cinquecento ma l’attività era già attiva in San Martino dell’Argine. Filippo fu abilitato ad esercitare la professione di speziale il 2 aprile 1571. Fu Massaro dell’Arte per due volte. Presso la sua spezieria dà vita ad un museo eclettico “di cose aromatiche et pertinenti alla salute degli uomini”. Soprattutto piante ma anche qualche oggetto davvero curioso che viene citato dalla testimonianza di un altro medico, Giovanni Battista Cavallara.

I DENTI DI GIGANTI: “il Costa […] mi mostra due detni molari grossissimi che veramente paiono denti humani. Et esso li ha ricevuti per denti di giganti et per tali li tiene, et aggiunge che furono ritrovati nei lidi di Sicilia”. Probabilmente si trattava di grossi molari di Elephas antiquus mnaidriensis ovvero l’animale che ha generato il mito dei giganti monocoli. Questo tipo di elefante visse in Sicilia durante il Quaternario. Inoltre quando ne vennero ritrovati anche i fossili del cranio, oltre alle enormi dimensioni, questo presentava proprio una grande apertura centrale. Era il foro dell’apertura delle narici. Ma tanto bastava per accendere la fantasia. Il Cavallara ne dubitava già nel 1586.

Bibliografia: La scienza a corte. Collezionismo eclettico. Natura e immagine a Mantova fra Rinascimento e Manierismo, Bulzoni editore 1979 – G. B. Cavallara, Lettera dell’eccellentissimo Cavallara all’eccellentissimo Signor Girolamo Conforto, 1586

Immagine: Illustrazione di Gustave Doré, 1873

denti dei giganti

Denti di giganti, da Ulisse Aldrovandi, Monstrorum historia, Bologna 1642

L’invidia tra cugini, gli Invaghiti e le gallerie di statue antiche

La vicenda del collezionismo in casa Gonzaga può essere ascritta anche a contese e rivalità personali in famiglia. E’ il caso di Cesare Gonzaga che, dopo una carriera militare al soldo di Carlo V, acquista importanza anche a livello politico. Nel 1560 sposa Camilla Borromeo, nipote del Papa Pio IV e sorella di (San) Carlo Borromeo. Nel 1561 fonda nel suo palazzo  mantovano l’Accademia degli Invaghiti. Il palazzo è cambiato e oggi è sede della Accademia Nazionale Virgiliana. La via Accademia ricorda il tutto.

Di ritorno da Roma, con oggetti e reperti, Cesare realizza nel suo palazzo un antiquarium grazie alla consulenza del vescovo Girolamo Garimberto e al mercante di antichità Giovanni Antonio Stampa. La Galleria, così come veniva chiamata, viene inaugurata nel 1565 e visitata l’anno dopo dallo Vasari: “bellissimo antiquario e studio […] pieno di statue e di teste antiche di marmo”. Afferma che i quadri presenti sono rari. Tra questi doveva certamente essere presente la Madonna della Gatta di Giulio Romano eseguita prima di trasferirsi a Mantova. Nel 1571 la collezione verrà visitata anche da Ulisse Androvandi. Negli stessi anni il duca Gugliemo, in risposta alla forte invidia che provava nei confronti del cugino, inaugura nel Palazzo Ducale i suoi interventi. Fa allestire gli spazi di Corte Nuova con le opere antiche acquistate a Roma. Il percorso che passa verticale dalla Sala di Manto alla Sala di Troia è un omaggio a Roma, alle origini mitiche della famiglie e al potere. La Galleria dei Marmi viene realizzata attorno al 1572 raddoppiando la loggia di Giulio Romano. Molto probabilmente, già nel 1579, fa progettare la Galleria della Mostra sotto la guida dell’architetto Facciotto. Aperta, contigua all’altra, affacciata sul cortile e luminosissima. E’ un’opera mai vista.

Così Guglielmo, dieci anni dopo, surclassa il cugino Cesare che nel frattempo ha spostato la sua corte a Guastalla divenendone il signore e adeguando la città al suo raffinato gusto avvalendosi del genio di Francesco da Volterra. Il ramo cadetto di Guastalla proseguì fino al 1678.

 

Bibliografia: Raffaella Morselli, Le collezioni Gonzaga. L’elenco dei beni del 1626-1627, Silvana Editoriale 2000

Immagine: Madonna della gatta 1523 (Museo di Capodimonte, Napoli) 

Il Palazzo Te dopo Giulio Romano. Restauri, arredi e Nevers

I Gonzaga Nevers hanno avuto la sfortuna di vivere nel terribile momento della guerra di successione spagnola, di avere come ultimo protagonista il fellone e sconclusionato Ferdinando Carlo e di essere arrivati dopo i Gonzaga. Forse troppo per parlarne bene eppure se non dovessimo tenere conto del contesto i Nevers hanno in realtà saputo dare quella continuità di famelici collezionisti e uomini di potere. Soprattutto con le figure di Maria Gonzaga e inizialmente di Carlo II. Delle oltre 4.500 voci dell’inventario redatto dal 10 novembre del 1665 vorrei porre l’attenzione sulla situazione del Palazzo Te. In quali condizioni era il palazzo più di cento anni dopo la morte di Giulio Romano? e come era arredato? Viene descritto come “un palazzo murato, capato, solerato, con porte, usci, finestre, vitriate, con giardino, frutiera, orto, brollo et altre sue qualità”. La Sala dei Cavalli è decorata con corami d’oro alle pareti, la Camera di Amore e Psiche con “apparamento di raso cremese con pizzo d’oro fodrato di tella rossa”: all’interno una tavola di marmo a otto facce, quattro scrittoi in ebano, sei sedie e due vasi d’argento. La Camera dei Venti ha invece un “apparamento di rasso turchino” ed è collocata una “lettiera tutta adorata et intagliata con diversi frutti, con la sua testiera, con figure sopra le colonelle, con sopra due matarazi di lana, con duoi cosini e piumazo”. Le coperte, per seguire la stessa linea, sono in turchino. Sotto alla loggia di David si registrano 14 statue in travertino. Così, quasi ogni camera, si compone generalmente di tavolini, scrittoi, apparamenti alti colorati, letti con materassi e sedie. Si registrano 10 quadri. Nella Sala dei Giganti c’è addirittura “un tavola di marmoro et nel mezo un giocho da schacho”. Nella cucina “un cavone longo da cucina di piopa, due tavole longe di piella, con li suoi cavaletti, un cavonselo di piella, rotto”. Nicolò Sebregondi aveva già realizzato l’esedra, seguendo, o molto probabilmente no, le volontà di Giulio Romano. Nel 1653 una squadra di pittori, decoratori e doratori lavora nelle camere delle Imprese e del Sole e di Ovidio. Si spendono 2.542 ducatoni per realizzare la decorazione scultorea al cosiddetto “fontanone sul The”. Si colleziona, si spende, si restaura. Ancora nel nome dei Gonzaga.

Bibliografia: Roberta Piccinelli, Collezionismo a corte, Edizioni Firenze 2010

Immagine: Esedra di Palazzo Te 

Tutte le reliquie dei Gonzaga finite in un amen

Ci sono oggetti che hanno assunto un tale potere da attirare pellegrini, curiosi e bisognosi verso le città dove sono custoditi per avvicinarsi, toccarli, baciarli o solamente ammirarli. E’ la straordinaria forza magnetica che col tempo hanno assunto le reliquie, da sempre oggetti di confine tra leggenda, religione e storia antica. Inventate, moltiplicate, rubate, trasmigrate. Oggetti di business religioso e artistico. La famiglia Gonzaga e i suoi famelici rabdomanti di curiosità hanno messo le mani su innumerevoli oggetti religiosi tra cui le reliquie, custodite in preziosi contenitori d’arte. Particolare fu l’esempio di Vincenzo I che, secondo la cronaca del Mambrino, nell’ottobre del 1599 ritornava dal soggiorno delle Fiandre con una collezione di oggetti tra il macabro e la rarità. Questi oggetti finirono collocati nella Chiesa di Santa Barbara, cuore religioso privato della Famiglia voluto dal padre Guglielmo quasi al centro del Palazzo Ducale. Vincenzo, scrive il Mambrino, fu “sollecito in raunare per quelle città della Fiandra et Alemagna, ove passò molte preciose reliquie di diversi Santi […] avendole però prima fatte accomodare in bellissimi vasi d’oro, et d’argento con molta spesa”. Vediamo nel dettaglio di cosa si trattava: il capo con quasi tutte l’ossa di S. Silvestro Papa, la testa di Santa Margherita Vergine et Martire, la testa di Sant’Adriano Martire, la testa di Santa Elena Regina non però la madre di Costantino, la testa di Santa Bona Vergine, due teste dè compagni di San Martino, desdotto teste delle compagne di Sant’Orsola, v’è poi parte d’un braccio di S. Pietro Apostolo, v’è parte di un altro braccio di San Paolo, un braccio di S. Matteo Evangelista, un braccio di Santa Maddalena, un braccio di S. Bartolomeo, un braccio di S. Martino, un braccio di S. Mauritio, v’è altri, 16 braccia dè Santi martiri. Oltre a questo si aggiungono la croce del legno delle Santissima Croce riccamente guernita d’oro, è gemme avute già da Costantinopoli con 3 spine della Corona di Nostro Signore […], una parcella del Sangue vero. Infatti Mantova vantava già la presenza della reliquia del Sangue di Cristo e del pezzetto della spugna custoditi nei Sacri Vasi e posti nella Cripta della Chiesa di Sant’Andrea.

Il Mambrino riferisce inoltre che la collezione non si esauriva certamente qui. Oltre ve ne sono una gran quantità d’altre reliquie, le quali, tutte furono accomodate in teste, è bracci d’argento indorati, in casse di Cristallo, ebano, et argento, et in varie calici, et altre inventioni di lighature in argento et Oro. Insomma un vero trionfo di meraviglie, nell’esatto significato del termine, che dovevano stupire, emozionare e gonfiare di soddisfazione le guance padane dei Gonzaga. Almeno fino al Sacco dei Lanzichenecchi del 1630. Amen.

Bibliografia. Marco Venturelli, Mantova e la mummia, Sometti 2018

Immagine. Marienschrein, reliquiario delle sacre reliquie di Aquisgrana, 1220-29 ca

Sacri Vasi a sx e Chiesa di Santa Barbara a dx

 

La fantastica storia della famiglia Gonsalus

Prodigi, fantasticherie, collezioni di rarità. Il Rinascimento non conserva solo il bello. Le Corti italiane ed europee avviano una “guerra del brutto” a colpi di originalità tra naturalia ed artificialia. Senza dimenticare che tutto è mosso dai sentimenti, ambizione desiderio, fama e un pizzico di cuore.  Continua a leggere “La fantastica storia della famiglia Gonsalus”