Quando Mantova era solo la civitas vetus. Il giro delle nove chiese

Risale almeno al VII secolo d.C. il culto e la tradizione a Roma di visitare il pellegrinaggio le sette chiese ovvero quelle di San Pietro, San Paolo, San Sebastiano, San Giovanni in Laterano, Santa Croce in Gerusalemme, San Lorenzo Fuori le Mura, Santa Maria Maggiore. Data la quantità dei luoghi e la distanza tra l’uno e l’altro il percorso veniva svolto in due giorni. Si partiva dalla Chiesa di San Pietro e si procedeva in senso antiorario per terminare nella basilica di Santa Maria Maggiore. Tale pratica si afferma nel 1300 in occasione del primo Giubileo e con gli elenchi delle indulgenze da praticare nelle diverse sette chiese. L’ulteriore affermazione avvenne con San Filippo Neri per il Giubileo del 1550. L’espressione diventò di uso comune e per la gente e la Chiesa del tempo eseguire il percorso diventò un requisito necessario per ottenere l’indulgenza plenaria. La via delle sette chiese, presente con questo nome anche nel Cinquecento, oggi si chiama via Paradisi e misura 3 km. Per i pellegrini era un viaggio di preghiera, salvezza dell’anima, visita e contatto diretto con le reliquie. Il tutto comportava spese, sacrifici e pericoli da superare durante lo spostamento dalle loro città di provenienza a Roma: locande, pernottamenti, pasti, cavalli, carri e buone suole. Il tipo di spesa dipendeva dal tipo di viaggiatore. Frati, poveri, letterati e signori erano quattro categorie turistiche decisamente diverse e che necessitava di livelli di accoglienza differenti.

Anche a Mantova si sarebbe potuto svolgere il giro delle sette chiese. Anzi, nella cosiddetta civitas vetus, ne erano presenti ben nove almeno fino al 1390. Molte corrispondono all’area della odierna Piazza Sordello – un tempo San Pietro. Si trattava della Chiesa di San Pietro – la cattedrale, di San Paolo, di Sant’Agata (dietro alla cattedrale), di Santa Croce (posta all’interno del Palazzo dei Gonzaga come cappella di corte), di Santa Maria Capo a Bove, di Santa Maria Mater Domini (in corrispondenza del voltone), di Sant’Alessandro, di San Damiano e della Santa Trinità. Di queste oggi è rimasta solo la Cattedrale. Il pellegrinaggio religioso si sarebbe potuto svolgere nell’area compresa tra le attuali Piazza Sordello, via Accademia e il Castello.

Bibliografia: Antoni Maczak, Viaggi e viaggiatori nell’Europa moderna, Editori Laterza 2009 | Stefano Davari, Notizie storiche topografiche della città di Mantova, Sartori Editore 1975

Immagini: Antoine Lafrèrie, Le sette chiese di Roma, anno santo 1575 da “Speculum romanae magnificentiae”

Un caso di stregoneria a Cavriana. Condanne e superstizioni mentre tutti ammiravano la Camera Picta

28 dicembre 1504, Cavriana. Ludovico Mantegna, figlio del celebre Andrea, oltre ad essere pittore ricopre il ruolo di commissario marchionale. A questa data scrive al marchese Francesco II Gonzaga una lettera che rispecchia bene il credo e la cultura del tempo. Dice che nel giorno di Santo Stefano è arrivato a Cavriana il padre vicario dell’inquisitore e ha tenuto una solenne predica “contra heritocos et incantatori, et contra a quelli che sanno et non rivelano simile cose”. Poi si passa a parlare di due strie ovvero di streghe. “Una confessa essere circa vintiquattro anni che ella va al corso cavalcando una gallina over un diavolo in forma di essa […] l’altra non vole cantare, perché io non ho instrumento congruo ne apto ad ciò”. Appare evidente che il “canto” si riferisce alla confessione e in particolare a quella sotto tortura che però Ludovico dice di non avere i giusti strumenti.

Ludovico, figlio di Andrea Mantegna, proviene comunque dall’ambiente culturale del padre fatto di testi eruditi, grecità e latinismi eppure qui è rappresentato nelle vesti di un funzionario integerrimo e incredulo che dice “io ho fatto il debito mio come fidel cristiano et ubidiente sempre, purre mi sia comandato”. Quasi da non credere come lo stesso periodo storico abbia prodotto la Camera degli Sposi, il Cristo Morto, i Trionfi di Cesare e dei processi basati sulla superstizione. Ma la storia non deve essere giudicata quanto piuttosto analizzata per capire come pensavano ad esempio le persone alla fine del Quattrocento nel mondo di splendore artistico. Il processo è accusatorio e finalizzato all’epurazione delle eresie. Non si arrivava al rogo come ultima soluzione e spesso la si voleva evitare. Le condanne al rogo non venivano inflitte direttamente dalla Chiesa ma dall’autorità civile. Difficile stabilire il numero di vittime ma in Europa varia tra le 35.000 e le 100.000.

Molto spesso una condanna era la somma di una forte dose di superstizione, stupidità e ignoranza. Soprattutto superstizione. Così si spiega la condanna a una strega mantovana rea di vari delitti e di aver permesso con le sue arti magiche l’esondazione del Po nei pressi di Revere. Così la donna originaria di Ostiglia, definita “strega di professione”, fu scoperta, processata e convinta; laonde fu condotta sopra d’una catasta di legna in piazza [San Pietro] e vi fu abbrugiata viva. A lei si attribuiva “la spaventevole rotta del fiume Po, li otto ottobre dello scorso anno [1492] a Peraruolo […] per le quali andò allagato tutto il paese, con diroccamento di case, morte d’uomini di animali, e la città medesima restò in gran parte inondata e diroccarono alcune mura di recinto, aggiungendovisi lo scoppio di lampi e fulmini che atterrivano”.

Bibliografia: Giancarlo Malacarne, Le feste del principe, Il Bulino edizioni d’arte, 2002

Immagine: Verbale del processo di una strega poi arsa sul rogo 1533 – Zentralbibliothek, Graphische Sammlung( Zurigo)