Cronaca del 22 aprile 1600. La strega Franchetta, il rogo e le dodici mila persone in piazza

Mantova, 19 marzo 1600. Questa la data del verbale con le accuse mosse contro Judith Franchetta e stilato dal notaio Cassiano Ratti. Giudicata come strega, eretica, ebrea e punibile con il rogo. Nello stesso si nomina la commissione che si occuperà del processo. Ci offre uno spaccato dalla giustizia del tempo a Mantova. Alessandro Donesmondi, presidente del Senato Ducale; Carlo Bardeloni, avvocato; Ascanio Rasi Capitano di Giustizia. La tortura a cui viene sottoposta Judith dà gli esiti sperati per la commissione ovvero la confessione. Josef Finzio e Jacob da Fano, suoi aiutanti, vengono scagionati dalla stessa Judith. La corte dei signori è in affaccio per vedere lo “spettacolo”. In piazza San Pietro ci sono oltre 12.000 persone. Lo svolgersi dell’esecuzione viene debitamente raccontato nella “Cronaca Mantovana dal 1561 al 1602” di Giovanni Battista Vigilio intitolata “la Insalata” nel capitolo 115.

Per quanto ho inteso, alli 22 d’aprille 1600, in sabato la mattina, circa l’hore 15 1/2, su la piazza del Domo di Mantova fu abbruciata viva la Iovadith Franchetta, hebrea d’anni 77 incirca, per esser stata striga over per haver magliato molte et diverse persone in vitta sua et specialmente una monacha dell’ordine della chiesa di san Vincenzo in Mantova, la quale di già era hebrea et poi fatta christiana entrata nella detta religione. Fatta la professione se ritrovò inspiritata et per gratia di nostro signor Ihesu Christo poi liberata. Al qual spettacolo vi furno presenti il detto serenissimo signor nostro, madama Elleonora sua moglie, la serenissima Margarita duchessa di Ferrara et la serenissima arciduchessa d’Austria Anna Catherina, sue sorelle, venuta d’Ispruch come di sopra, et tutti gli figliuoli, accomodati sopra li poggi et finestre del pallazzo di Corte Vecchia, et tanta quantità et moltitudine de persone che tutta la detta piazza era talmente piena che non vi si poteva volgere, onde fu giudicato non vi esser manco de dieci et anco dodeci milla persone. La qual Iovadith hebrea, legata con molte funi in piedi ad una collona di legno, sopra una gran quantità de legne, alle quali doppo l’essergli datto il fuogo di trei hebrei che la confortavano, duoi se ne fugir[no] et il terzo, qual era vecchio et tanto intento al suo officio, f[u] / quasi per restar con essa lei nelle fiamme (sì come saria), quando dalli altri duoi non fosse stato tirrato al basso, nel qual mentre si abbruciò la fune con la quale haveva legato le mani, et con la man destra si faceva diffesa dal fogo alla faccia, soffiando anco con la bocca, ma poco gli valse perché incontinenti se ne caddi nelle fiamme et così finì la sua vitta.

Bibliografia: Giovanni Battista Vigilio, La Insalata. Cronaca mantovana dal 1561 al 1602, a cura di Daniela Ferrari e Cesare Mozzarelli, Arcari Editore 1992

Immagine: Fredegonda fa giustiziare Ennio Mummolo e alcune donne accusandole di stregoneria per aver avvelenato il figlio Teodorico – miniatura dalle “Chroniques de France ou de Saint-Denis”, 1332-1350

Per chi suonava il campanone? I tre botti dopo un omicidio, i birri e l’inseguimento

Come informare che era avvenuto un omicidio o che le ricerche svolte per cercare un malfattore erano andate a buon fine? A Mantova un’antica disposizione del 9 gennaio 1665 prescriveva l’obbligo di far suonare con tre botti il campanone della chiesa “per segno di arrestare i rei”. L’ordine di Carlo II Gonzaga-Nevers proclamava che per ferite e omicidi “ogni persona descritta nella Milizia della nostra città che abiterà nella contrada dove succederà il fatto” doveva avvisare l’ufficio del Capitano di giustizia e dare i tre botti alla campana. Si trattava di un “segno di convenzione per inseguire i malviventi”. Questa legge era ancora in voga nel Settecento quando si testimonia l’uso di suonare la campana a martello.

Dopo i tre suoni della campana il pretore passava gli ordini al satellizio di città ovvero alle formazioni dei birri che avviavano l’immediato inseguimento e il conseguente arresto. Se dopo il suono della campana i malviventi avessero ancora opposto resistenza gli inseguitori erano legittimati a sparare contro di loro. Se il reo veniva catturato il giudice procedeva alla redazioni delle circolari di arresto della persona – ancora presunto reo in attesa della conferma delle prove – con la descrizione fisica, deposizione della vittima o di un testimone. Così l’informazione passava al Governo e al Consiglio.

Bibliografia: Alessandro Agrì, La giustizia criminale a Mantova in età asburgica: il supremo consiglio di giustizia, vol. II, Historia et ius 2019

Immagine: Campana del Palazzo del Podestà di Mantova (Archivio Storico del Comune di Mantova, fondo Raccolta fotografica, Busta 2, fasc. 11/2, foto 4)

Il Gioco di Diana praticato a Mirandola. Accuse, processi e roghi per stregoneria

Dal 1522 al 1525 la Signoria di Mirandola fu al centro dei processi di stregoneria. Alla fine di quell’ondata furono dieci le persone condannate, sette uomini e tre donne. L’epilogo scontato con il rogo ha luogo nella odierna Piazza della Costituente di fronte al Castello dei Pico.

Giovanni Francesco II Pico, signore di Mirandola, scrisse in seguito il Libro della strega o delle illusioni del demonio, considerato uno dei primi libri di questo tipo scritto in lingua volgare. Il periodo di aspri tumulti familiari tra i rami dei Pico si aggiunge all’assedio di Mirandola del 1502 contro Francesca Trivulzio e alla condanna del frate fiorentino Pietro Bernardino. Accusato di eresia e sodomia venne arso vivo perché il fondatore della setta cosiddetta “dei piagnoni” che lo avevano eletto come antipapa e accusato. La fine dell’assedio riporta al potere Giovanni Francesco II Pico che mette in atto una politica feroce e di soprusi per conservare il potere. Così gli accusati di stregoneria furono alcuni personaggi importanti del territorio di Concordia – dove era alloggiata Francesca Trivulzio – e gente molto conosciuta dalla popolazione del mirandolese e dintorni, fra cui molti sacerdoti. L’inquisizione inizia nel 1522 con l’arrivo da Faenza del frate dominicano Girolamo Armellini. Venne chiamato per indagare su alcune voci che riferivano di strani rituali notturni nei contadi attraversati dal fiume Secchia. In particolare si raccontava di pratiche di atti abominevoli tra cui il cosiddetto “Gioco di Diana”, che consisteva in scandalosi peccati di carne e gola oltre al disprezzo del Crocifisso e delle ostie consacrate.

I processi e gli interrogatori, condotti con la tortura, si svolsero nell’Oratorio della Madonna di via di mezzo. Il 22 agosto 1522 venne dato al rogo il primo accusatore, don Benedetto Berni. I processi – soprattutto con le accuse di magia e stregoneria – riprendono dagli anni sessanta e proseguono nel Seicento e nel Settecento quando Mirandola venne annessa al Ducato di Modena. Il tribunale dell’Inquisizione di Modena venne abolito il 6 settembre 1785 dal duca Ercole III d’Este.

Bibliografia: Paolo Golinelli, Mirandola 1507 nel racconto di un viaggiatore fiorentino, in Quaderni della Bassa Modenese, vol. 56, 2009 | Albano Biondi, Gianfrancesco Pico e la repressione della stregoneria. Qualche novità sui processi Mirandolesi del 1522-1523, in Mirandola e le terre del basso corso del Secchia dal Medioevo all’età contemporanea, vol. 1, Modena, Aedes muratoriana, 1984 | Giordano Berti, Storia della stregoneria, Mondadori 2019

Immagine: L’Oratorio della Madonna della Via di Mezzo, fotografia 1950

Bartolomeo Valente ovvero il boia, la testa e il bandito

Roma, 11 gennaio 1581. Michel de Montaigne, giunto in città da pochi giorni, assiste allo spettacolo di una decapitazione pubblica. Il condannato è Bartolomeo Valente detto il Catena, un bandito celebre per il numero di omicidi a lui attribuiti. Pare 54. Queste le sue ultime volontà dettate all’alba ai confortatori: voler morire da buon christiano et in remissione de suoi pechati domandando misericordia a N. S. Dio et perdonando a tutti quelli l’havessero offeso si come di cuore perdono a tutti quelli che sono stati offesi da lui confessando morir giustamente. Altro disse non haver da far scrivere.

Il boia si occupa dell’esecuzione. Una volta inferto il colpo – unico e non con altri tentativi – il corpo del condannato, così come i suoi beni, finisce alla Confraternita: la sera alle 22 hore furono levati e quarti et portati dalla nostra Compagnia a sotterrare alla nostra Chiesa, et la testa […] fu consegnata al maestro della giustizia. Ovvero al boia. All’anima veniva garantito, perché si era confessato e pentito, il suffragio delle messe. La sepoltura veniva garantita e nel camposanto della chiesa perché morto da cristiano. Sempre alle confraternite spettava di pulire il corpo dopo l’esecuzione, rimettere in sesto i pezzi e raccogliere le frattaglie nell’apposito “sechion per li interiori”.

Con speciali diritti di prelazione al boia veniva concesso di portarsi a casa la testa come è avvenuto con quella del Catena. Alla porta del boia potevano bussare le persone che chiedevano un farmaco o una cura poco lecita. Infatti la sua abitazione era una specie di farmacia dove si poteva richiedere “un poco di grasso humano per ungere con esso la sciatica”.

Bibliografia: Adriano Prospero, Delitto e perdono. La pena di morte nell’orizzonte mentale dell’Europa cristiana, Piccola Biblioteca Einaudi 2016

Immagine: Caravaggio, Davide con la testa di Golia, Galleria Borghese (Roma 1609)

Ferri caldi, marche e lettere. Ladri bollati in faccia

Mantova 1664. E’ l’anno della fondazione della Gazzetta. Viene pubblicato una grida che prescriveva a chi commetteva i reati più atroci di essere puniti non solo con la legge ma anche “bollati dal carnefice in faccia in maniera visibile”. In realtà già l’11 agosto 1626 era uscito l’ordine “ladri bollati in faccia” che prevedeva un evento pubblico. La marca – ovvero il segno, in genere una lettera – non doveva essere applicata sulla spalla né sulla fronte “ove la capellatura o in altro modo si può facilmente nascondere” bensì sulla parte superiore della guancia proprio con l’incisione della lettera “M” ovvero “la morte a cui doveva soggiacere”.

In Inghilterra, nello stesso periodo, era una pena molto comune marchiare i condannati utilizzando un ferro con lettere e marchi di vario genere a seconda del reato. Di solito il ferro rovente veniva impresso sul palmo della mano sinistra. La lettera R (rogues) per furfanti e vagabondi, la lettera T (thief) per i ladri, e la lettera M (manslaughter) per gli assassini. In Francia invece tutti i reati venivano marchiati con con il fleur-de-lis ovvero il giglio.

La marca infame tuttavia poteva essere eliminata attraverso un intervento medico. Gian Domenico Rainolda, attivo a Bologna nella seconda metà del Seicento, consigliava l’uso del succo di mandragola e del ranuncolo. Questi rimedi erano in realtà una ripresa degli scritti di Plinio che già scriveva così: stigmata in facie mandragoras inlitus delet.

Bibliografia: Alessandro Agrì, La giustizia criminale a Mantova in età asburgica: il supremo consiglio di giustizia, Volume I, Historia et ius 2019 | George Riley Scott, Storia della tortura, Mondadori 2017

Immagine: Peter Bruegel il Vecchio, Ladro di nidi, 1568 (Kunsthistorisches Museum di Vienna)

Le mappa delle prigioni a Mantova. Castelli, torri e bragantini

Mantova, 1750. Girando in città nel periodo teresiano avremmo notato una città in fase di rilancio costruttivo e con un occhio particolare di riguardo alla giustizia. Vengono istituite molte più carceri rispetto al periodo gonzaghesco. Erano diffuse in città, con funzioni diverse, continua o perpetura e separate per uomini e donne. Le prigioni dette di piazza – le carceri di piazza – erano dieci e avevano tutte nomi diversi: prima nuova, seconda nuova, pensierosa, speranza, paradiso, inferno, luterana, galeotta, comune delle donne, comune degli uomini.

La reclusione presso il Castello di San Giorgio era invece destinata ai condannati nobili su istanza della famiglia o ai militari. Così il castello ospita ad esempio il barone Guglielmo di Haugwitz. Le donne invece venivano mandate all’Ospedale Grande, ancora quello costruito e voluto da Ludovico II Gonzaga. Le torri continuavano a svolgere la loro funzione di prigione come la torre civica.

A proposito di castelli e torri nel Settecento con questa funzione veniva utilizzato il torrazzo di Castel Goffredo. Situato nella centrale piazza Mazzini, si tratta di una costruzione di origine medievale – probabilmente seconda metà del Trecento – a scopo difensivo e abitazione del vicario che rappresentava i Gonzaga. Al piano terreno era situata la camera di tortura. Nel Seicento diventa la sede del banco dei pegni degli ebrei. La sua funzione di prigione viene confermata da una lettera al governatore di Castel Goffredo del 2 maggio 1708.

A Mantova i condannati potevano subire la pena della galera. Non si trattava della stessa pena veneziana data l’assenza di una flotta militare. Il Bragantino era la “punizione del remo” istituita a Viadana nel 1753. Prevedeva che i condannati fossero condotti proprio a Viadana e svolgere lavori e attività di remigazione sul fiume Po su delle imbarcazioni che si chiamavano appunto bragantini. Queste potevano ospitare fino a 20 galeotti e venivano utilizzate per il pattugliamento dei fiumi.

Bibliografia: Alessandro Agrì, La giustizia criminale a Mantova in età asburgica. Il supremo consiglio di giustizia, Historia et ius 2019

Immagine: Torrazzo di Castel Goffredo

Essere appesi per una caviglia. Tarocchi, pitture infamanti e religione

L’Appeso è la dodicesima carta degli arcani maggiori. Nei mazzi dei tarocchi – o trionfi – più antichi era indicato anche con il nome del “traditore”. Viene raffigurato infatti un corpo – generalmente di un giovane – appeso per una caviglia al ramo di un albero. Una gamba è piegata dietro a quella ritta, i polsi legati sono dietro la schiena. La posizione si rifà ovviamente alla posa del supplizio pubblico. L’Appeso può anche tenere in mano due sacchetti di monete che dovevano rappresentare il prezzo del suo tradimento. Indica anche il ribaltamento della fede comune.

L’iconografia appare molto aderente alla posa delle pitture infamanti che campeggiavano sulle facciate dei palazzi del potere civile. Così viene raffigurato il traditore nelle carte dei Tarocchi Visconti-Sforza realizzati nel XV secolo.

La stessa posizione l’avremmo vista anche a Mantova nei primi anni del Seicento. Dopo una burla a carico del frate francescano Bartolomeo da Solutio, avvenuta nel cortile della Sinagoga, tra i molti ebrei incarcerati, sette furono giustiziati “per aver schernito la parola di Dio”. Furono impiccati e appesi per un piede a una forca appositamente eretta in piazza Sordello. Ai sette ebrei fu fatto l’obbligo di indossare un copricapo arancio come segno d’abominio.

Bibliografia: Stuart R. Kaplan, I Tarocchi, Milano, Mondadori, 1981

Immagine: L’appeso, dai Tarocchi Visconti-Sforza, 1440-1470

Un sabato del 1709. Un impiccato, uno squartato e una testa tagliata

Mantova, sabato 19 gennaio 1709. L’avviso in strada così cominciava: “Questa mattina giorno di sabbato 19 gennaro 1709 in Mantova…”. S’impicca Francesco Agnelli della Cappella per aver fatto ammazzare Giovanni Golini di detto luogo per assassinio; si taglia la testa a Caterina Golini sorella di detto Giovanni per aver cospirato con detto Agnelli, e commesso per assassinio la morte del medesimo Giovanni suo fratello; s’impicca e si squarta Gioan-Antonio Argenti da Gazzuolo assassinio esecutore del Mandato di detti Francesco Agnelli e Caterina Golini, col premio di scudi trenta di lire sei piccoli di Mantova.

In fondo a leggere bene dal Medioevo non era cambiato molto. L’avviso che leggete è integrale. Veniva letto in strada, urlando. Da qui il termine di “grida”. I cittadini non avevano ancora terminato di assistere alle nefaste vicende. Ferdinando Carlo Gonzaga, l’ultimo duca, era morto a Padova il 5 luglio del 1708, solo un anno prima. Qualcuno ipotizza per avvelenamento.

Bibliografia: Luigi Carnevali, La tortura a Mantova e altri scritti, Sartori Editore, 1974

Immagine: Pisanello, particolare della Cappella Pellegrini (Chiesa di Sant’Anastasia, Verona)