Il Palazzo Te dopo Giulio Romano. Restauri, arredi e Nevers

I Gonzaga Nevers hanno avuto la sfortuna di vivere nel terribile momento della guerra di successione spagnola, di avere come ultimo protagonista il fellone e sconclusionato Ferdinando Carlo e di essere arrivati dopo i Gonzaga. Forse troppo per parlarne bene eppure se non dovessimo tenere conto del contesto i Nevers hanno in realtà saputo dare quella continuità di famelici collezionisti e uomini di potere. Soprattutto con le figure di Maria Gonzaga e inizialmente di Carlo II. Delle oltre 4.500 voci dell’inventario redatto dal 10 novembre del 1665 vorrei porre l’attenzione sulla situazione del Palazzo Te. In quali condizioni era il palazzo più di cento anni dopo la morte di Giulio Romano? e come era arredato? Viene descritto come “un palazzo murato, capato, solerato, con porte, usci, finestre, vitriate, con giardino, frutiera, orto, brollo et altre sue qualità”. La Sala dei Cavalli è decorata con corami d’oro alle pareti, la Camera di Amore e Psiche con “apparamento di raso cremese con pizzo d’oro fodrato di tella rossa”: all’interno una tavola di marmo a otto facce, quattro scrittoi in ebano, sei sedie e due vasi d’argento. La Camera dei Venti ha invece un “apparamento di rasso turchino” ed è collocata una “lettiera tutta adorata et intagliata con diversi frutti, con la sua testiera, con figure sopra le colonelle, con sopra due matarazi di lana, con duoi cosini e piumazo”. Le coperte, per seguire la stessa linea, sono in turchino. Sotto alla loggia di David si registrano 14 statue in travertino. Così, quasi ogni camera, si compone generalmente di tavolini, scrittoi, apparamenti alti colorati, letti con materassi e sedie. Si registrano 10 quadri. Nella Sala dei Giganti c’è addirittura “un tavola di marmoro et nel mezo un giocho da schacho”. Nella cucina “un cavone longo da cucina di piopa, due tavole longe di piella, con li suoi cavaletti, un cavonselo di piella, rotto”. Nicolò Sebregondi aveva già realizzato l’esedra, seguendo, o molto probabilmente no, le volontà di Giulio Romano. Nel 1653 una squadra di pittori, decoratori e doratori lavora nelle camere delle Imprese e del Sole e di Ovidio. Si spendono 2.542 ducatoni per realizzare la decorazione scultorea al cosiddetto “fontanone sul The”. Si colleziona, si spende, si restaura. Ancora nel nome dei Gonzaga.

Bibliografia: Roberta Piccinelli, Collezionismo a corte, Edizioni Firenze 2010

Immagine: Esedra di Palazzo Te 

Rinascimento monstruoso. Bizzarrie e rarità tra Isabella e Federico

Il gusto per l’arte e il collezionismo di Isabella d’Este continua anche con il figlio Federico II Gonzaga che allestisce di altre curiosità il famoso studiolo. L’inventario steso dal notaio Stivini nel 1540, dopo un anno dalla morte della marchesa, registra: rami di corallo rosso e bianco, un calcedonio ed un prasio (pietra) con inclusioni sia allo stato naturale che appeso a catenelle. Poi conchiglie marine, “una corna di alicorno longa plami sette e mezzo la quale è posta sopra l’armarij suso duoi rampini torti alla fuora via, uno dente de pesso sopra alla fenestra longo tre palmi”. Questo eclettismo prosegue anche con Federico che aggiunge tra le altre curiosità: pessi marini et altri animali mostruosi cinque pessi columbi de mare, undeci lumache marine tra piccole e grandi, una pelle d’uno pesso marino monstruoso, uno cocodrillo grande et trei cocorilli piccolli, duoi dintature de pesso marino, una spada dil pesso chiamato pesso spada, una ganassa de lupo copeta da coramo per portare al collo a cavallo, duoi cocodrilli grandi. Tale madre tale figlioLa mostruosità, il brutto e il bizzarro mentre Giulio Romano era impegnato a San Benedetto Po nella ristrutturazione dell’Abbazia per l’abate Gregorio Cortese. Il Rinascimento è meno chiaro e coerente di come poteva sembrare.

Bibliografia: La scienza a corte, Bulzoni editore, 1979

Immagine: Animal Africanum deforme, tratto da Monstrum Historia di Ulisse Aldrovandi (Bologna 1642)

Il cavallo di Pordenone nel Broletto

Al tempo di Giulio Romano era facile poter osservare in una camera di un palazzo la rappresentazione di un cavallo. Immobile, di corsa, su un soffitto, maestoso. Ne avremmo osservato uno anche sulle facciate dei portici di via Broletto. Tra i civici 52 e 54, dove erano collocati la domus mercatorum e la stadera, era presente la figura del duca Federico II a cavallo. Un’immagine di forza, fierezza e di celebrazione della famiglia Gonzaga che aveva permesso alla città di crescere dandole ricchezza e prestigio. L’attribuzione è riferita al Pordenone ovvero Giovanni Antonio de’ Sacchis. Il pittore friulano ha raccolto le figure possenti di Michelangelo abbinandoli ai toni veneti, innegabile il richiamo a Giorgione. Così scriveva Vasari nelle Vite: il più raro e celebre […] nell’invenzione delle storie, nel disegno, nella bravura, nella pratica de’ colori, nel lavoro a fresco, nella velocità, nel rilievo grande et in ogni altra cosa delle nostre arti. Il Pordenone nello stesso periodo si occupa degli affreschi della casa di Paride da Ceresara nell’attuale Corso Pradella. I portici che si affacciano su via Broletto erano decorati con affreschi carichi di simbologia che annunciava fortuna e ricchezza. La cornucopia ad esempio era un chiaro riferimento ai successi economici. La figura di Federico II a cavallo oggi non è più visibile ma possiamo immaginarla come una citazione di un imperatore romano, possente ed energico. Sicuramente è stato visto da Giulio Romano. Chissà cosa avrà pensato, chissà se i lavori saranno passati sotto la sua supervisione visto che dal 1526 aveva assunto la carica di superiore delle vie urbane.

Bibliografia: Ercole Marani, Vie e piazze di Mantova. Analisi di un centro storico, 1984

Immagine: Santi Martino e Cristoforo, 1529, Chiesa di San Rocco Venezia (ante d’organo)

Il pittore veneziano e il sultano

Nel settembre del 1479 comincia il soggiorno di Gentile Bellini a Istanbul che lo vedrà impegnato fino al gennaio del 1481. Cosa ci faceva un pittore veneziano nella capitale dei turchi? Il sultano Mehmet II era affascinato dall’arte occidentale soprattutto italiana e aveva richiesto un “buon depentor chi sapia retrazer”. Lui era soprannominato il Conquistatore. Il motivo è chiaro: la conquista di Costantinopoli. Una missione artistica forse anche a sfondo diplomatico. Non è da dimenticare infatti la caduta di Bisanzio nel 1453 e la pace siglata tra Venezia e i turchi nel 1479. In questo contesto va inserito il soggiorno di Bellini che trasporta in terra turca tutti i nuove dettami dell’arte veneziana. Ritratto di tre quarti, pittura ad olio, figura chiusa in una arcata con balaustra dalla quale ricade un ricco drappo con gemme. Ai lati della “finestra” sono dipinte le iscrizioni che recano la data (novembre 1480) e i nomi di Gentile Bellini e del sultano. Mehmet ovvero Maometto II sfoggia un turbante a bulbo che contrasta con il caffettano rosso e la stola di pelliccia. Così viene definito il nuovo ritratto: personale, psicologico, vero quasi quanto un documento. Pochi anni prima Antonello da Messina aveva portato a Venezia questo nuova idea compositiva. Pochi mesi prima Maometto II è protagonista della Battaglia di Otranto. Dopo due settimane di assedio la città cade e 800 abitanti della città vennero decapitati. Venezia aveva firmato, era neutrale.

Bibliografia: Elisabeth Crouzet-Pavan, Rinascimenti italiani 1380-1500, Viella, 2012

Immagine: Gentile Bellini, Ritratto del sultano Mehmet II (Victorian and Albert Museum)

Giulio Romano con gli occhiali

Duolmi il non avere prima, e meglio servito V.S. scusandomi per la infermità degli occhi, che appena la domenica di Pasqua mi concesse il comunicarmi”. Così scrive Giulio Romano a Pietro Aretino il 27 aprile 1537 riferendosi ad un disegnoNon ci sono altri documenti in cui Giulio si riferisce ad un problema agli occhi ma quasi certamente si può ipotizzare, solo da queste poche righe, che lo accusava prima della data in cui scrive e che solo ha rubato questa poca d’oretta in far questo mal composto disegno. In questo momento Giulio Romano aveva terminato il cantiere di Palazzo Te, avviato la costruzione dell’Appartamento di Troia e delle Pescherie e probabilmente alle prese ancora con il Palazzo di Marmirolo. Lavora per Federico II Gonzaga da 13 anni intensi e stancanti. Il suo metodo di lavoro è diverso da quello di Raffaello. Non affida e non demanda, non ci sono allievi ma collaboratori. La parte dell’invenzione è tutta sua: idea, schizzo, disegno, cartone. Nulla lascia, tutto esegue in modo indipendente. Il lavoro da predisporre è tantissimo. Infatti sempre più si stacca dalla fase realizzativa dell’opera. Non dipinge ma dirige. Per questi motivi si può ipotizzare, più per gioco che per appurata indagine medico-storica, che Giulio Romano portasse gli occhiali. O comunque gli avrebbero fatto comodo. Quelli ad arco, senza stanghette laterali. Se non gli occhiali almeno una lente come quella che tiene tra le mani il futuro papa Leone X nel dipinto di Raffaello. La miopia ad esempio si diffonde soprattutto nel Rinascimento complice l’invenzione della stampa e in particolare con la produzione dei libri tascabili. E’ l’immagine ideale dello studioso: libro in mano e occhiali.

Bibliografia: Giulio Romano. Repertorio di fonti documentarie, a cura di Daniela Ferrari, 1992

Immagine: Raffaello. Particolare dell’opera Papa Leone X con il cardinale Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi, 1519