Nani, Barbaro e Giustinian. Il ritratto della bella di Veronese

Senza dubbio uno dei vertici della ritrattistica di Paolo Veronese. La cosiddetta “Bella Nani”, databile tra il 1558 e il 1560, è un’opera ancora al centro del dibattito critico perché priva della sua reale identità. L’impostazione del soggetto e dell’opera si rifà allo schema del ritratto che Tiziano ha codificato tra gli anni venti e trenta del Cinquecento.

Siamo di fronte ad un ritratto di un personaggio vero e non generico. L’abito sfarzoso – strabiliante la relazione tra il blu e l’oro dei monili – fa pensare ad una donna di alto rango. La denominazione – posteriore e senza conferme – di “bella nani” deriva da Marco Boschini quando nel 1660 parla della bella di Cà Nani. Tra le proposte si contano anche Elena Badile, la moglie di Veronese, e una generica cortigiana, ovviamente stereotipo della pittura veneziana. Altra suggestione è il riferimento a Giustiniana Giustinian, moglie di Marcantonio Barbaro, già ritratta da Veronese nel celebre salone della villa di famiglia a Maser. Una sovrapposizione, tra i due soggetti, quasi perfetta. Le sopracciglia esili, la fronte spaziosa, il piccolo mento con la fossetta, le orecchie piuttosto larghe.

Se così fosse si spiegherebbe la denominazione data da Boschini. Infatti il ramo dei Barbaro confluisce nei Nani tramite Elena Pisani, andata in sposa ad Agostino Nani nel 1627. La Giustiniana, che sposa Marcantonio nel 1543, ha un’età compresa tra i trenta e i trentacinque anni. Non c’è ostentazione quanto piuttosto un atteggiamento gentile nonostante l’elogio di gioielli e monili. La mano destra appoggiata sul cuore indica proprio l’affermazione e la trasparenza delle sue virtù morali. Chiude il cerchio questo dato.

Daniele e Marcantonio Barbaro furono tra i più attivi committenti di Veronese tra ritratti personali e affreschi delle proprie ville in terraferma. Una rete di amicizia che avvalora l’identificazione con Giustiniana.

Bibliografia: Paolo Veronese, L’illusione della realtà, a cura di Bernard Aikema e Paola Marini, Electa 2014

Immagine: Paolo Veronese, Ritratto di Giustiniana Giustinian, 1558-60 (Museo del Louvre, Parigi)

Milano fine Quattrocento. Ambrogio de Predis tra Leonardo, il gotico e le Fiandre

Chi è Giovanni Ambrogio De Predis? Forse non il primo nome che viene in mente nella Milano del secondo Quattrocento, dove tutte le attenzioni sono rivolte a Leonardo. Eppure si stava sviluppando con questo pittore un’ibridazione tra la pittura del cosiddetto gotico internazionale – ormai finita – e le novità della ritrattistica ufficiale nordica.

I suoi colleghi milanesi si stavano aggiornando e avevano scelto di spostarsi per imparare nuove tecniche – come la pittura ad olio – e nuove soluzioni. La direzione non era verso sud ma il nord. La Germania e le Fiandre. Zanetto Bugatto, uno dei preferiti degli Sforza, tra il 1460 e il 1463 venne inviato presso la bottega di Rogier van der Weyden.

Milano, prima dell’arrivo di Leonardo, si ritrova un interessante crogiolo di linguaggi diversi. L’ultimo sbadiglio di gotico dei fratelli Zavattari, i ritratti fiamminghi, le influenze bresciane di Foppa unite a quelle dei ferraresi e di Mantegna. A complicare le cose saranno gli arrivi prima di Bramante e poi di Leonardo.

Nel 1491, nove anni dopo l’arrivo di Leonardo, Ambrogio si reca a Roma, nel 1493 va invece a Innsbruck alla corte di Massimiliano I d’Asburgo come ritrattista ufficiale. Un anno dopo è già di ritorno a Milano ma affermato, imprenditore e gestore di una bottega famigliare e con la capacità di svolgere anche incarichi diplomatici per la corte milanese.

Tutto da riscoprire il rapporto tra Leonardo e i de Predis. La prima importante commessione – la Vergine delle Rocce – venne concordata proprio con Ambrogio. La sua bottega doveva occuparsi della coloritura e della doratura della cornice lignea dell’ancora. Leonardo abitò in una casa presso Porta Ticinese, vicino a quella di Ambrogio e trovata dagli stessi de Predis. In breve Ambrogio diventa il primo ad avvicinarsi al linguaggio leonardesco, in grande anticipo rispetto ai vari Salaì e Boltraffio.

Nell’anno 1502 si reca nuovamente ad Innsbruck per realizzare il Ritratto dell’imperatore, espressione massima del crogiolo lombardo del tempo dove però, a causa delle richieste del committente, viene meno la connotazione leonardesca come invece nel ritratto di dama. Ritornerà nel Tirolo nel 1506 per l’esecuzione dei capi di abbigliamento della corte imperiale.

Leonardo, dopo un periodo frenetico di opere e di spostamenti – Mantova, Venezia, Firenze e il lavoro per Cesare Borgia – fa il suo ritorno a Milano prima di partire nel 1517 per la Francia, direzione Amboise. Ambrogio forse fece appena in tempo a rivederlo nel 1508 quando Leonardo abitava in San Babila perché morì l’anno dopo.

Bibliografia: AAVV, I leonardeschi, l’eredità di Leonardo in Lombardia, Milano 1998

Immagine: Giovanni Ambrogio de Predis, Ritratto di Massimiliano d’Asburgo 1502 (Kunsthistorisches Museum di Vienna)

Il dittico che in realtà era un trittico. I Portinari, alla moda di Bruges

Hans Memling nasce in Germania a Seligenstadt tra il 1435 e il 1436, cinque anni dopo Andrea Mantegna. Fa parte della seconda generazione di pittori dopo Jan Van Eyck che morirà solo cinque anni più tardi nel 1441.

Non ci sono documenti che attestino la sua vita fino al trasferimento nelle Fiandre nel 1460 ma probabilmente visita Colonia e Magonza. Nel 1464 si trasferisce a Bruges e il 30 gennaio 1465 ottiene la cittadinanza della città fiamminga. Qui fa la conoscenza dell’imperante stile di Petrus Christus che ha saputo coniugare la tradizione fiamminga del ritratto con quella italiana della prospettiva, dello studio dei corpi e dell’architettura.

A Bruges, grazie ad una bottega ben strutturata, riesce ad avviare un’abbondante produzione di dipinti devozionali. Oltre a questi riuscì ad instaurare con le famiglie europee relazioni tali da prendere commissioni di ritratti per mercanti, agenti e membri delle elites cittadine.

Questo è il caso dei ritratti di Tommaso e Maria Portinari del 1470 e conservati al Metropolitan di New York. I Portinari, originari di Firenze, erano una delle famiglie più importanti dedite alla finanza e uno dei banchieri più in vista della colonia fiorentina di Bruges. Consulente e amico di Carlo il Temerario, fu il committente anche del famoso Trittico Portinari realizzato da Hugo van der Goes tra il 1477 e il 1478. Maria è ritratta come una donna alla moda di Bruges.

ll doppio ritratto Portinari venne spedito a Firenze in un momento imprecisato degli anni 70 e alla morte di Tommaso – avvenuta nel 1501 – si trovava già presso il Palazzo Portinari dove venne inventariato come “una tavoletta dipinta preg[i]ata cum nel mezo una immagine di Nostra Donna e delle bande si è Tommaso e mona Maria sua donna dipinti in deta tavoletta”.

Quindi il famoso dittico in realtà era un trittico ed originariamente era composto con al centro una Madonna col Bambino non identificata.

Bibliografia: Memling, Rinascimento fiammingo, Scuderie del Quirinale, 2014

Immagine: Hans Memling, Ritratto di Maria Portinari, 1470 (Metropolitan Museum, New York)

Il primo dipinto, il viaggio, il ritorno. Antonello da Messina a Venezia

Messina, 5 novembre 1474. Antonello da Messina riceve un pagamento dagli eredi del defunto nobile Pietro Porcu per alcuni non identificati “vessilli”. In questo mese, o al massimo ai primi di dicembre, Antonello si imbarca su una nave diretta a Venezia.

C’è una prova? In verità non abbiamo documenti del viaggio ma molto probabilmente è avvenuto via acqua perché più rapido, più sicuro e più economico. Infatti tra Messina e Venezia ci sono 1.200 kilometri e attraverso l’Italia a piedi sarebbe stato un viaggio insidioso e dispendioso. Pedaggi, stazioni di posta, alloggio nelle locande, il vitto per uomini e animali, il cambio della valuta, le commissioni, i lasciapassare, i briganti, i fiumi da attraversare e le strade mal segnalate.

Probabilmente Antonello arriva a Venezia entro il natale del 1474 quando il nuovo doge – Pietro Mocenigo – è stato appena eletto il 15 dicembre e chissà che il pittore non abbia potuto partecipare alla cerimonia. La sua primissima opera dipinta in laguna è il Ritratto di giovane di Berlino. La data 1474 in realtà può anche suggerire che la realizzazione sia avvenuta in Sicilia prima della partenza ma la moda del ragazzo è tutta veneziana con la tipica toga rossa, il cappuccio, il becchetto che ricade sulla spalla. Antonello porta a Venezia quel suo modo – di partenza fiammingo, provenzale e spagnolo – di eseguire i ritratti privati a cui aggiunge un tono misterioso e un dialogo sempre aperto con lo spettatore. Infatti le pupille sono girate verso le spettatore che affronta con il soggetto un duello di sguardi per nulla intimoriti. La balaustra fa da finestra, da spazio di separazione del tutto cancellato, immergendo quel duello in un rapporto ancora più diretto.

Antonello rimarrà a Venezia per due anni, fino al 1476, dove realizza una ventina di opere. Facciamo due calcoli. 20 dipinti in due anni significa consegnare un dipinto finito ogni 25 giorni lavorativi. Nel settembre del 1476 il pittore è già ritornato a Messina e ci rimarrà fino al febbraio 1479 quando morirà a meno di cinquant’anni.

Bibliografia: Mario Lucco, Antonello da Messina, 24 ORE cultura, Milano 2011

Immagine: Ritratto di giovane 1474 (Gemaldegalerie, Berlino)

Oltre il naso di Federico. Il modello di duca del Rinascimento

Sì, andiamo oltre l’aneddoto della perdita dell’occhio destro in uno scontro armato imprecisato, forse il torneo del 1450 organizzato per commemorare l’adesione di Francesco Sforza al ducato di Milano. Non fu lui a procurarsi apposta quel taglio per aumentare la visuale dell’occhio rimasto, forse fu davvero un colpo di lancia in battaglia. Ma, per la sua vita così spericolata e pericolosa, forse è stato davvero il minimo.

Gubbio 1422. Nasce Federico, figlio illegittimo di Guidantonio conte di Montefeltro e di Urbino. Ha studiato i testi e le lettere antiche con Vittorino da Feltre e le armi invece da Niccolò Piccinino.

Difficile fare una sintesi della sua carriera militare. Fu a capo delle milizie sforzesche e fiorentine fino al 1451 quando passò al servizio di Ferdinando I re di Napoli. Dal 1460 appoggia papa Pio II nel conflitto contro Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini. Poi nel 1466 ottenne il comando della lega italica e un anno dopo sconfisse l’esercito veneziano di Colleoni nella vittoria di Molinella. Si sa che un condottiero cambia presto partito. E così in seguito lo ritroviamo contro il papa contro i quali difendeva i superstiti domini dei Malatesta.

Due i matrimoni. Nel 1437 sposa in prime nozze Gentile Brancaleoni; in seconde nozze, nel 1460, Battista Sforza, figlia di Alessandro Sforza signore di Pesaro. Grazie ai grandi guadagni derivati dalle condotte militari fece costruire il Palazzo Ducale di Urbino e quello di Gubbio oltre ad una serie di rocche e castelli per rafforzare le difese militari. Nel 1472 fu incaricato dalla città dei Firenze di prendere possesso di Volterra perché rischiava di perdere il controllo delle miniere di allume.

Due anni dopo Federico raggiunge l’apice del prestigio ottenendo il titolo ducale di Urbino dal papa Sisto IV. Deteneva infatti tre concessioni di ordini: quello equestre di San Pietro, quello dell’ermellino da Ferdinando I e l’ordine della Giarrettiera dal re Edoardo IV d’Inghilterra. Federico morì mentre svolgeva il suo lavoro di condottiere. Infatti fu colpito probabilmente dalla malaria durante la guerra di Ferrara mentre comandava l’esercito estense contro quello papale e veneziano. Era il 10 settembre 1482. Aveva 60 anni.

Bibliografia: B. Roeck, A. Tonnesmann, Federico da Montefeltro. Arte, stato e mestiere delle armi, Einaudi, 2009 | G. Scatena, Federico da Montefeltro duca di Urbino, Sant’Angelo in Vado, 2004

Immagine: Doppio ritratto dei duchi di Urbino, Piero della Francesca 1472 (Uffizi)

Le tante domande attorno alla presunta Laura di Giorgione

Questo dipinto – olio su tela incollata su tavola – di Giorgione è l’unico ad essere firmato e datato, 1506. La sua storia collezionistica è nota a partire dal 1636 quando fu venduta dal mercante veneziano Bartolomeo della Nave a Lord Hamilton, tramite l’ambasciatore inglese nella Serenissima, il visconte Basil Feilding. In un inventario redatto in italiano compare come Laura del Petrarca, alto palmi 2 largo 1 ½ del med(esi)mo Georgione. Possibile forse una sua decurtazione nella parte inferiore dove il soggetto teneva una mano posata sul grembo, probabilmente ad alludere una gravidanza.

Dietro il dipinto è presente questa scritta: 1506 adj primo zugno fo fatto questo de mano de maistro Zorzi da chastel fr(anco) cholega de maistro vizenzo chaena ad instanzia de mis giacmo. Attorno a questa frase – autentica scritta cinquecentesca del tipo corsivo mercantesca – e il dibattito è tuttavia ancora acceso e per un maggior approfondimento dei diversi punti di vista rimando al saggio del Professor Dal Pozzolo. Il testo è tracciato a penna – o altro strumento a punta elastica – e con inchiostro direttamente su legno.

Siamo così sicuri che l’alloro alle sue spalle debba necessariamente richiamare il nome di Laura? Nello stesso periodo nei dipinti veneti ad essere associati all’alloro erano soprattutto i maschi. Si potrebbe trattare di una cortigiana visto il gesto di mostrare il petto nudo? La veste è foderata di pelliccia e svolazza maldestra una sciarpa bianca, oltre alla presenza di un velo azzurrino sulla testa. La memoria della stessa tipologia di ritratto corre a Ginevra de’ Benci di Leonardo, di circa trent’anni prima. Potrebbe trattarsi di un ritratto nuziale commissionata dal marito? Si tratta di una donna ideale oppure di un vero e proprio ritratto?

Tante domande che aprono all’indagine archivistica e paleografica più che artistica. Tante domande attorno ad un quadro che misura appena 41 x 33,5 centimetri.

Bibliografia: Enrico Maria Dal Pozzolo, Il problema della committenza della “Laura”
di Giorgione: una revisione paleografica e un’ipotesi aperta

Immagine: Laura, Giorgione 1506 (Kunsthistoriches Museum, Vienna)

I coniugi de’ Rossi e l’esibizione delle etichette. Il doppio ritratto di Parmigianino

13 febbraio 1523, Parma. Pier Maria III de’ Rossi, conte di San Secondo, sposa Camilla Gonzaga, figlia di Giovanni Gonzaga signore di Vescovato e fratello di Francesco II Gonzaga. Camilla gli assicura una dote di seimila ducati, in denaro, gioielli, abiti e arredi.

L’anno precedente rientrò in possesso dei suoi feudi grazie all’intervento dello zio Giovanni de Medici sconfiggendo gli usurpatori nella battaglia di San Secondo. Nel 1527 invece entra al servizio come uomo d’arme di papa Clemente VII e di Carlo V. Nello stesso anno partecipa al sacco di Roma. Ferito viene spedito in difesa della Puglia. Nel 1530 è a capo delle truppe imperiali durante l’assedio francese di Firenze, nel 1535 è a Tunisi contro i Turchi, poi in Provenza e in Albania nel 1537 in soccorso dei veneziani.

Le vicende militari e umane di Pier Maria sono fondamentali per leggere il suo ritratto eseguito da Parmigianino proprio in questi anni. Il suo sguardo non incontra il nostro, guardo lontano. La sua figura è imponente, di tre quarti, e si staglia sullo sfondo di un broccato d’oro. Ricchezza, status, fierezza militare con l’elsa della spada in una mano e tracotanza maschile esibita nella brachetta eretta in primo piano. Sulla destra una piccola statua di Marte assume la stessa posa.

I tre figli sono tutti sull’altro pannello, quello che ritrae Camilla, letteralmente circondata quasi da un loro ballo. Un modello che non verrà replicato da Veronese per la nobiltà vicentina in cui i figli dei coniugi Porto-Thiene saranno suddivisi nei due pannelli.

Bibliografia: Correggio e Parmigianino. Arte a Parma nel Cinquecento. Catalogo della mostra (Roma, 12 marzo-26 giugno 2016), a cura di D. Ekserdjian 

Immagine: Ritratto dei coniugi de’ Rossi, 1535-40 (Museo Nacional del Prado – Madrid)

Lotto, il cardo e i giochi di parole

Lorenzo Lotto, dopo la prima fase di formazione nella sua Venezia, va nella Treviso del vescovo Bernardo de’ Rossi che lo inserisce nella vita culturale cittadina. Per lui infatti esegue due ritratti con coperta ovvero con una custodia dal perimetro di poco superiore e pensata con la funzione appunto di copertura a scorrimento del quadro. Entrambe le coperte si trovano alla National Gallery Art di Washington.

L’ultima opera realizzata a Treviso è un altro ritratto, quello che generalmente viene riferito come “Ritratto di giovane con lucerna”. Si tratta in realtà di un personaggio riconoscibile nella figura di Broccardo Malchiostro, giovane cancelliere del vescovo Bernardo.

La tipologia del ritratto è quella solita veneta. A mezza figura, col busto di tre quarti e il volto girato verso lo spettatore. Broccardo è rappresentato con un vivo realismo che si sofferma sui particolari come le imperfezioni della cute, il naso pronunciato e la morbidezza dei capelli. Il volto viene quasi incorniciato dal nero della veste e del cappello in contrasto con il broccato bianco sullo sfondo. broccato. La lucerna, visibile alle sue spalle, ha una fiamma fioca, come se avesse rischiato di spegnersi. Probabilmente infatti la lucerna si riferisce alla scampata morte nell’attentato accorso a lui e al vescovo ne 1503.

Cosa c’entrano in tutto questo i cardi? Il broccato bianco presenta una decorazione di cardi e sicuramente è uno stratagemma che gioca con il cognome del personaggio ovvero Broccardi, una crasi tra broccato e cardi.

Bibliografia: Roberta D’Adda, Lotto, Milano, Skira, 2004

Immagine: Ritratto di giovane con lucerna, 1506 (Kunsthistoriches Museum, Vienna)

Guglielmo Gonzaga, la leggenda della parsimonia e un milione nel camerino ferrato

Guglielmo era molto morigerato mentre il figlio Vincenzo un gran spendaccione a tal punto da iniziare la crisi economica della famiglia. Quanto c’è di vero in questa frase usatissima?

Abbastanza da essere supportata da qualche numero. Beninteso è giusto dire che sono scarsi i dati relativi alla gestione della finanza pubblica al periodo di Guglielmo Gonzaga e questo non permette un’analisi numerica. Tuttavia alla morte del parsimonioso duca – non solo una frase fatta ma era vero – venne ritrovato nel “camerino ferrato di corte vecchia” un tesoro di poco meno di un milione di scudi d’oro.

Tanto? meglio dire tantissimo visto che corrispondeva alla quantità d’oro pari all’esportazione media annua della Spagna e delle Americhe nello stesso periodo.

Il calcolo, effettuato da De Maddalena, conferma la stima degli ambasciatori veneti per i quali Guglielmo proprio grazie alla sua buona amministrazione politica “lasciò al figliol un milione d’oro in contanti, 400.000 in crediti e 300.000 in grani da servirsene nelle occorrenti necessità”. Questo scriveva l’ambasciatore veneziano Francesco Morosini il 21 giugno 1608.

Bibliografia: Bibliografia: Storia di Mantova. L’eredità gonzaghesca secoli XII – XVIII, a cura di Marzio A. Romani, Tre Lune Edizioni 2005

Immagine: Ritratto di Gugliemo Gonzaga, prima del 1587