Dormono, dormono nella chiesa di Canneto. Un album di lapidi, fotografie e memorie

Canneto sull’Oglio, 1630. Come a Mantova e nel resto del contado quell’anno significa peste. Fu un evento tragico soprattutto per i piccoli centri che videro quasi del tutto cancellati i loro abitanti. La maggior parte dei defunti non ha avuto tempo di ricevere una degna sepoltura e pertanto centinaia e migliaia di corpi finivano dimenticati nelle fosse comuni. A Canneto nel giro di due anni 3.200 abitanti vengono ridotti ad appena 600. Così venne deciso di costruire una nuova chiesa eretta sull’area del Lazzaretto. La Chiesa dell’Esaltazione della Santa Croce doveva così fungere da contenitore della memoria dei defunti dell’intero paese. Il cantiere arriva a conclusione solo il 23 aprile del 1745 ovvero 115 anni dopo la fine della peste manzoniana.

All’interno, su entrambe le pareti, trovano spazio un affollamento, un’abbondanza ordinata e disordinata insieme, di fotografie e lapidi che testimoniano i volti e la traccia terrena degli abitanti. Le lapidi più antiche sono quelle che appartenevano alle famiglie ricche. Ricchissima la simbologia ottocentesca con la farfalla – che allude alla resurrezione e all’anima leggera – il teschio e l’uroboro che rappresenta l’eterno ritorno. All’ingresso, sulla destra, colpiscono due lapidi che si riferiscono a due persone morte una decina d’anni dopo Baudelaire, anno 1867. Il tempo di posa era praticamente lo stesso pertanto l’immagine risulta già mortifera, quasi un anticipo della morte.

Nonostante la morte sia una livella espone comunque ai vivi una certa immagine del valore economico e di potere di una famiglia o di una persona. Così la gente meno benestante si è adoperata con un macabro e delicato ingegno utilizzando materiali più facili da reperire e pertanto costruì da sé gli oggetti da esporre. cartone, compensato, ceramica, legno, cuoio e perline. Molti i rimandi ai fiori. Verso la fine dell’Ottocento, con l’introduzione della fotografia, è mutato il mezzo espressivo della memoria e diventa il canale di comunicazione tra i morti e i vivi.

A Edgar Lee Masters non gli fu mai consigliato di passare per Canneto. La raccolta di epigrafi, lapidi e fotografie funzionava come l’album della memoria del paese e certamente trova più di un’affinità con l’Antologia di Spoon River. La prima edizione risale al 1915 e contava 213 epigrafi l’anno dopo diventate 244. In totale sono raccolte le storie di 248 personaggi. Masters attinge dalle storie dei paesini vicino a Springfield dove era cresciuto. Mentre Edgar Lee Masters scrive le vicende di Spoon River a Canneto si stanno portando delle cornici da appendere.

Immagine: Chiesa di Santa Croce detta anche “dei Morti”, particolare interno, fotografia di Simone Rega 

Bibliografia: Arte, Fede, Storia. Le chiese di Mantova e provincia, Tre Lune Edizioni,2006

Milano acquatica. Porti, laghetti, navigli e conche

In epoca longobarda nei pressi dell’attuale area del Duomo c’era il porto fluviale di Mediolanum. Il “laghetto” fu realizzato modificando una laguna naturale formata da un’ampia ansa naturale dello storico fiume Seveso attraverso un’azione di bonifica delle zone paludose. Così si è creata una straordinaria opera di canalizzazione del fiume in modo da renderlo navigabile per le piccole imbarcazioni. Il porto sorgeva nei pressi della romana Porta Tonsa da cui tonsa significa appunto “remo”.

Iniziata nel 1156 e proseguita con Visconti e Sforza tre secoli dopo, la Cerchia dei Navigli era un sistema difensivo costituito da un anello d’acqua che racchiudeva il centro storico medievale di Milano. Il tracciato della Cerchia dei Navigli corrispondeva alle attuali vie Fatebenefratelli, Senato, San Damiano, Visconti di Modrone, Francesco Sforza, Santa Sofia, Molino delle Armi, De Amicis, Carducci, piazza Castello e via Pontaccio.

In epoca viscontea la Fabbrica del Duomo venne costruita con il marmo di Candoglia che veniva prelevato nel Lago Maggiore e fatto arrivare in città proprio attraverso il Naviglio Grande. Il materiale giungeva proprio a 400 metri dal cantiere presso il Laghetto di Santo Stefano, un approdo realizzato ad hoc. Nel 1438, in anticipo su tutte le altre città e quasi sicuramente la prima in Europa, viene realizzata la prima conca di navigazione ovvero la cosiddetta Conca di Viarenna. Nel 1471 Francesco Sforza fa costruire il Naviglio della Martesana poi nel 1496 collegato da Ludovico il Moro con la cerchia fluviale cittadina. In questo modo vengono congiunte le acque dell’Adda e del Ticino. Nello stesso periodo, sempre con Ludovico, si procede al completamento del Naviglio di Bereguardo e della Conca dell’Incoronata.

La Darsena invece riguarda il periodo successivo agli Sforza e parla dunque spagnolo. E’ il 1603 quando il governatore Pedro Enriquez de Acevedo fa realizzare un bacino artificiale nei pressi di Porta Ticinese con la funzione di ormeggio e rimessa per le imbarcazioni. Nella stessa area era presente in precedenza il laghetto di Sant’Eustorgio.

 

Immagine: Pescatori in via Senato, anno 1910

Bibliografia: Guido Lopez, Fabio Lopez, La Roba e la libertà. Gli Sforza, Leonardo e Ludovico, Mursia 2019 | https://it.wikipedia.org/wiki/Navigli_(Milano) 

Pietrobuono il tecnico della guerra. Trabocchi, proiettili e mangani

Mantova 1210. Un documento del 23 agosto vede Boso Poltroni, insieme ai nipoti Egidio e Pagano – figli del defunto Bulso ucciso tra poco tempo prima, perfezionano un atto notarile con Pietrobuono figlio di Martino di Buonmartino. Egli promette che fino al 29 di settembre e poi per l’anno successivo, se fosse stato necessario, di provvedere alle diverse macchine belliche per la torre, dei Poltroni ovviamente.

Si fa riferimento proprio a “hedificia et laboreria de manganis, prederiis, mantellis et trabuchellis”. Il trabocco era un’arma di grandi dimensioni che si basa sul principio della leva con contrappeso fisso e veniva utilizzata soprattutto nelle situazioni di assedio. Con questa macchina veniva lanciati proiettili di pietra. Offesa e difesa. La famiglia Poltroni si sta preparando contro i loro acerrimi nemici ovvero i Calorosi, Caffari, Mozzi e il loro sistema clientelare. Pietrobuono, per la progettazione e non per la fabbricazione delle armi, viene retribuito con 6 lire entro il 29 settembre e altre sei per l’anno seguente. Pietrobuono era un tecnico specializzato in macchine da getto, ecco perché si cita il trabocco. L’impegno è di “afilare et adestrare” tutti gli hedificia, e all’occorrenza di ripararli, per l’intera durata della werra contro i Calorosi. Chiaramente nel contratto si esplicita il conseguente divieto di fornire prestazioni alla parte avversa. Viene stabilita una pena pecuniaria in caso di diserzione.

Due le specifiche. La prima riferita alle torri come struttura non abitativa – almeno non in questo contesto storico – e la seconda riferita al termine di “hedificia” con il quale si indicano le macchine d’assedio e struttura aggiuntive alle torri per aumentare il loro carattere militare.

 

Immagine: Urbano VI assediato da Carlo III nel castello di Nocera, dalle Croniche di Giovanni Sercambi 

Bibliografia: Giuseppe Gardoni, Fra torri e magna domus. Famiglie e spazi urbani a Mantova (secoli XII e XIII), Libreria Universitaria Editrice, Verona 2008

Francesco Ruota detto Puttino. “Strassinato, tanagliato, accopato, strangolato, et squartato”

Piazza Broletto, 28 marzo 1604. A Mantova la popolazione è tutta riunita, una calca di spinte e schiamazzi, chi a favore, chi contro. Il bersaglio è Francesco Ruota detto Puttino. Forse per le dimensioni corporee particolarmente ridotte. Carcerato e condannato “in pena di ribellione, lesa maestà, et ultimo suplitio”. Il motivo: nel documento si parla di “certi furti commessi da Putino et compagni”. Inoltre armato di archibugio, insieme ad altre 6 persone, di notte ha commesso l’omicidio di Aloigi galvagno Vicario di Giustizia.

La pena che verrà inflitta è durissima: “che prima sia legato alla coda d’un cavallo, et in tal modo strassinato per la città, et con tanaglie infocate tanagliato, di poi condotto sopra la piazza del formento, ivi le sia tagliata la mano, et d’indi condotto al luogo della giustitia con una mazza di ferra sia accopato, et poi strangolato, et squartato”. La mano di Francesco viene poi attaccata al luogo del delitto come monito generale e “li quarti fuori del Castello d’Hostiglia, et di più le sia atterrata la casa conforme le gride del 1580” con la confisca totale dei beni. La mano, tolta ed esibita pubblicamente, era la punizione per i ladri. Infatti venivano tolte le parti del corpo in relazione all’azione compiuta con la stessa. Ai bestemmiatori veniva tolta la lingua.

Francesco Ruota viene condannato a 30 anni, lascia moglie e 4 figli.

 

Immagine: Trionfo della morte, Peter Bruegel, 1562 (Museo del Prado, Madrid)

Bibliografia: Relazioni su delitti commessi nelle terre dei Gonzaga dal 1492 al 1722, a cura di Brenno Pavesi, Edizioni Bottazzi 1993

L’archibugio di Antonio da Suzzara e le guerre di Ongheria

Suzzara, 18 ottobre 1600. Antonio di Milani da Suzzara viene carcerato e condannato in contumacia “nella pena della gallera ò, per altra pena personale ò reale al arbitrio di Sua Altezza”. Motivo: “per havere del mese di novembre 1599 portato per il Dominio di Mantova et spetialmente per le piazze di Suzara un archobuggio da rota longo senza licentia et contro l’ordini”.

Antonio aveva 39 anni e 2 figli. Afferma di provenire dalla Ongheria ovvero dall’Ungheria e “si credeva poter portar detto archibuggio e che hà servito à casale per soldato per 3 anni”. Alla fine del documento si chiede che il detto Antonio venga graziato e rilasciato purché vada immediatamente a servire come soldato presso Casale Monferrato “per annum continuum”.

Nello stesso momento Vincenzo I Gonzaga sta proseguendo le sue spedizioni proprio in Ungheria contro i Turchi. Un’ennesima prova di coalizione fiacca tra principi cristiani per scacciare il tanto famoso “pericolo turco”. Nelle tre spedizioni, tra 1595, 1597 e 1601, non riuscì una sola volta a dare prova dei suoi valori militari. Durante l’ultima “impresa” del 1601 Vincenzo ottiene la luogotenenza generale e strinse d’assedio Canissa ovvero Nagykanizsa. I Turchi, dall’altra parte, offrono una valorosa resistenza. L’organico dei giannizzeri nel 1603 era di 14.000 unità. La conclusione vede soccombere Vincenzo e battersi in ritirata.

 

Immagine: Miniatura di moschettiere giannizzero, Libro dei costumi Ralamb, XVII secolo

Bibliografia: Relazioni su delitti commessi nelle terre dei Gonzaga dal 1492 al 1722, a cura di Brenno Pavesi, Edizioni Bottazzi, Suzzara 1993 | A.S. MN., A.G., b. 3470

Per un pugno di carta. Famiglie in lotta per il “follo sotto Goito”

1 luglio 1615. Viene concessa a messer Angelo da Fano la gestione del “follo da carta sotto Goito“. Il documento recita così: capitoli con li quali si concede et affitta a messer Angelo da Fano, il negozio delle strazze e garavelle nella qual concessione et location è anco compreso il follo da carta di Sua Altezza posta sotto Goito con dietro biolche tre in circa di terra”. La durata è di sette anni.

Soave, 1596. Vent’anni prima sorge in riva al Naviglio un opificio che si occupa della follatura della carta. Un certo Cesare Rovigo il 1 di giugno dello stesso anno “à la palta delle straze di Mantova et suo Dominio” ovvero ha il monopolio della raccolta degli stracci. Viene concessa inoltre a Pietro Garotti la facoltà di approvvigionarsi di stracci e di colla garavèla ovvero l’occorrente per la fabbricazione della carta. La famiglia Garotti risulterà di fatto la proprietaria della nuova cartiera. Si trattava di una consorteria famigliare composta dai tre fratelli Pietro, Giuseppe e Girolamo. Dal Duca avevano avuto in appalto la gestione della Dogana e della Tavola Grossa. Si trattava del provente fiscale più importante dopo i dazi del sale e della macina. Il tributo si riferiva a qualsiasi prodotto importato, esportato o in transito che non fosse già coperto da altri dazi.

I Garotti erano una famiglia mantovana, facoltosa, di mercanti ed esattori ducali. Abitavano nella contrada del Cigno e tra le terre in loro possesso c’erano diversi appezzamenti in località Soana di Soave. La loro cartiera sorgeva nei pressi della Corte Fignola, in riva al Naviglio. Questo suscita fin da subito le polemiche con le altre famiglie cartare come i Pontevico e i Ruffinelli. I Garotti cedono la cartiera al duca nel 1603, dopo soli sette anni di attività, ma la cedono in affitto prima a Bartolomeo Mazzini e poi ai fratelli di Soave Lorenzo e Francesco Sedi, entrambe famiglie di esperti cartari.

 

Immagine: Macchina a pistoni per il pestaggio degli stracci, XVII secolo  

Bibliografia: Renzo Dall’Ara, Cesare Bertolini, La cartiera mantovana. Tre secoli di lavoro al Maglio, Tipografia Commerciale Cooperativa, Mantova 2001 | Giuliano Mondini, Soave: il territorio e la sua gente, 1997

Quando a Mantova successe un mapèl. Ludovico II, la peste e il lazzaretto

Palazzo Sclafati, Palermo 1446. Il Maestro del Trionfo della Morte sta terminando un affrescando di straordinarie dimensioni. Oggi ignoto, non si conoscono informazioni. Probabilmente straniero, catalano o provenzale, viene chiamato da Alfonso V d’Aragona. Dipinge le atrocità che di lì a poco si sarebbero scatenate nel nord Italia.

Poco dopo la metà del Quattrocento a Mantova viene costruito il Lazzaretto di Mapello nella zona di confluenza tra il Naviglio e il Lago Superiore. Si tratta di una costruzione in anticipo rispetto ad altre città come Milano dove la prima proposta fu avanzata solo nel 1468. Quello di Mantova si data dieci anni prima. Il termine ha anche una profonda radice popolare. Mapèl è un’espressione che viene usato per alludere ad una situazione di confusione. Per i mantovani significava la peste.

Il nome Mapello è già presente nel XII secolo quando viene citato nel 1189 un tale Guilielmi de Mapello e nel 1199 un Guilielmo Mapelli, entrambi come teste di atti notarili. Nel 1443 viene citata invece la presenza di un taverna. Questa informazione fa pensare che la zone fosse già luogo di passaggio. Con l’avvio dei lavori del Naviglio – datazione 1455 – si intensifica la costruzione dell’Ospedale. Tre anni più tardi si apprende che il marchese Ludovico II Gonzaga ha “una casetta a Mapello” dove si stabiliscono gli zoieleri a lavorare. A questa data la zona quindi risulta una borgata con una taverna, alcune abitazioni, lavoratori saltuari e abitanti residenti nei pressi. I lavori subiscono una brusca interruzione nel periodo in cui alloggia in città il papa Pio II che, per l’occasione, visita il lazzaretto e “lì stete fino la sera”. Nel 1461 si procede alla copertura dei tetti e subito dopo nei documenti si parla di letti forniti da trasportare al Mapello ovvero con l’occorrente per essere usati. Nel Mapello c’era anche una piccola chiesa dedicata a San Lino. L’ospedale è terminato. Giusto in tempo perché nell’ottobre del 1463 scoppia una nuova epidemia di peste. Il marchese e la sua famiglia si trasferiscono a Revere così come quegli abitanti che si spostano nelle campagne. Ludovico, riferendosi al Mapello, scrive degli ammalati: “lì ge serìa proveduto de medicine et quanto havesse bisogno et se moriseno, morerìano come cristiani, che stasendo ali casoni mòreno come cani”. Da un primo resoconto datato dicembre del 1463 si può desumere che il Lazzaretto ospitasse fino a 50 ammalati, ricoverati in ambienti separati a seconda dello stadio della malattia e senza discriminazione tra cristiani ed ebrei. L’epidemia del 1463 passò come le altre arrivate in precedenza lasciando lo spazio per il conteggio dei morti, il risanamento e l’aumento di popolazione. La calma durò soli 5 anni. Arrivarono poi le ondate del 1468 e del 1478. Il Mapello divenne il centro di isolamento per gli infetti più gravi. Fra il 30 settembre e il 1 ottobre 1478 vennero censite in città 8.795 persone. 

 

Immagine: Trionfo della Morte, 1446 – Galleria regionale di Palazzo Abatellis, Palermo

Bibliografia: Giuliano Mondini, Soave: il territorio e la sua gente, 1997

“Fabbricava aqua per dar morte alle persone”. Giulia, Pasquina e l’acqua Tofana

Il cognome Tofana certo non doveva portar bene. Tofana d’Adamo viene giustiziata a Palermo il 12 luglio 1633 con l’accusa di aver avvelenato il marito Francesco. Giulia Tofana – forse la figlia o la nipote – prosegue la serie nefanda degli omicidi e soli sette anni più tardi perfeziona l’acqua che la consegnerà alla storia. L’acqua Tofana. Anche se probabilmente fu la d’Adamo ad inventare la miscela mortifera.

Si trattava di un veleno incolore, senza odore né sapore. Praticamente perfetto. Al malcapitato causava la morte nel giro di due settimane e in apparenza per cause naturali.  Acqua, anidride arseniosa, limatura di piombo, limatura di antimonio e belladonna. Il 5 luglio 1659 fu condannata e giustiziata a Roma presso il Campo de’ Fiori insieme a Girolama Spera – forse la sorella o la figlia – e ad altre tre donne accusate di aver avvelenato i loro mariti.

Revere, 8 maggio 1657. Due anni prima della condanna a Giulia Tofana c’è una donna che ne segue le orme, è una certa Pasquina Sarti. Viene accusata di aver fabbricato un’acqua mortifera “per dar morte alle persone”. Il marito, con cui era in qualche dissapore da tempo, morì dieci giorni dopo l’assunzione dell’acqua. La condanna venne seguita da Giovan Battista Saginari, Capitano di Giustizia di Revere.

 

Immagine: Ritratto di una boccetta che reca l’immagine di San Nicola di Bari, incisione di Pierre Méjanel per Les Mystères de la Franc-Maçonnerie, Parigi, 1886

Bibliografia: Relazioni su delitti commessi nelle terre dei Gonzaga dal 1492 al 1722, a cura di Brenno Pavesi, Edizioni Bottazzi, Suzzara 1993 \ A.S. MN., A.G., b. 3496

 

Cappuccetto rosso della pianura. Lupi e archibugi tra Suzzara e Fornovo

Mantova, aprile 1535. Volemo et te imponemo che luni prossimo che viene a hora di terza tu facci che 200 o, 300 homini di quella iurisditione se ritrovino a Torricella a casa del Pozino o, del nobile Carlo de Ramo, et che portino più archibusi che siano possibili et della carta per carricarli per far strepito, et questo per far la caccia alli lupi a Letebelano. 

La caccia al lupo avverrà lunedì prossimo alle otto della mattina. La presenza dei lupi è documentata nella Pianura Padana e soprattutto a Suzzara, Palidano, Luzzara e nel Polesine. Veniva praticata per difendere il bestiame dalla minaccia più pericolosa ma è presente un lungo elenco di fatti che danno al lupo la nomea di mostro della pianura o della foresta assalendo soprattutto i bambini. A Piantonia (Fornovo di Parma) nel 1547 “uno lupo tolsi un puto” ovvero prese un bambino da una scala e gli levò la camicia senza romperla o sgualcirla. Poi dilaniò il bambino tanto che di lui rimasero solo le braccia.

Il 23 agosto 1565, trent’anni dopo, a Suzzara si registra un episodio analogo. Questa volta un lupo entra in un casamento. A riferirlo è Girolamo Amigone, commissario di Suzzara. Così racconta: jeri un lupo in un Casamento de un francesco Soliano e ammazzo un suo filiolo de anni sei”.

 

Immagine: Bestiario di Aberdeen (XIII secolo, Inghilterra) conservato nella Biblioteca dell’Università di Aberdeen. Consultabile online qui: http://www.abdn.ac.uk/bestiary/ms24/f1r 

Bibliografia: Relazioni sui delitti commessi nelle terre dei Gonzaga dal 1492 al 1722, a cura di Brenno Pavesi, Edizioni Bottazzi, Suzzara 1993 | A.S. MN., A.G., b. 2936 | A.S. MN., A.G., b. 2573

“Aliter de Bertonis”. La famiglia che ha dato il nome al Parco

Goito, Parco delle Bertone. Oggi una superficie di sette ettari, al tempo dei Gonzaga era solo in parte la loro tenuta di caccia. I terreni poi passarono ai Chieppio e infine ai d’Arco. La casa padronale, ancora oggi presente, è datata 1870.

Perché il nome di Bertone? Il nome deriva dalla famiglia de Bertoni proprietaria della tenuta. Nel Quattrocento la zona del parco, posta a ridosso del Naviglio e delle conche, era chiamata Bosello. Un secolo dopo viene citata come concha di Bertoni. Un atto notarile del 17 dicembre 1552 il duca Guglielmo Gonzaga concede per 500 scudi d’oro in modo perpetuo la corte e i campi attigui – un totale di 405 biolche – ai fratelli Matteo, Domenico, Nicolò, Paolo e Francesco Fondrini, aliter de Bertonis. Così erano conosciuti e chiamati. Vivevano in villa Brolii ovvero nel Brolazzo del Comune di Goito, vicini al fondo. La corte acquistata era denominata Teze Merlate. In seguito venne chiamata Corte dei Bertoni e quindi Corte Bertone.

Così nasce un nome. L’esercizio di toponomastica non è un’evoluzione a tavolino ma il frutto di acquisti, vendite, strette di mano, persone, facce, famiglie, soldi.

 

Immagine: Casa padronale del Parco del Mincio 

Bibliografia: Giuliano Mondini, Soave: il territorio e la sua gente, 1997