Giocattoli e pratiche di guerra. I soldatini e la tradizione dei peltrai di Norimberga

Tralasciamo la storia dei soldatini e delle bambole del periodo romano e dell’Alto Medioevo. Nel Quattrocento si diffondono i primi veri soldatini che rappresentavano il surrogato dei cavalieri dei tornei, in legno o in metallo. Sono giocattoli che, come il cavallo e la spada, devono formare il giovane cavaliere e il valore anche nel futuro signore. Nel Cinquecento si producono in stagno e piombo. E’ la Germania che la produzione diventa imponente. Nel 1578 il Consiglio di Norimberga emette un editto che autorizzava la Gilda dei Peltrai a produrre figurine – di stagno o di piombo – come giocattoli per i bambini. Ora i soldatini vengono destinati anche ai regnanti.

Così sono tanti gli esempi di principi e re che donano o hanno come dono i soldatini. Sono 300 quelli in argento e fabbricati dall’orafo tedesco Nicholas Roger, che Maria de’ Medici regala al figlio Luigi XIII Delfino di Francia, nel 1610. Il Re Sole donò invece un intero esercito giocattolo al Grande Delfino, Luigi, suo figlio.

Oltre ai pezzi prodotti singolarmente e a tutto tondo si diffondono anche quelle piatte chiamate flachfiguren, letteralmente “figurine piatte”. Le altre invece erano le zinnfiguren, “figurina di stagno”. L’arte del soldatino conosce la vera svolta verso la metà del Settecento con la famiglia Hilpert, peltrai di Coburgo e che iniziarono la loro attività a Norimberga. Oltre alle figurine dei pattinatori e cacciatori nel 1780 viene prodotto il set di 19 animali con tanto di nome scientifico inciso.

Ma è con le campagne militari di Federico il Grande che il pubblico e gli artigiani si concentra sulle figurine dei soldatini. Non fa specie riferire che la prima di queste figurine militari fu proprio un ritratto di Federico alta 150 mm e oggi ancora conservata al Museo Nazionale Bavarese. Sopra è riportata anche la firma “J.H. 1777”. Da questa data la produzione diventa codificata con rigide misure e pratiche di costruzione, gli artigiani lavorano anche fuori Norimberga soprattutto in Sassonia grazie alla presenza delle miniere di stagno. Così ha inizio nell’Ottocento un’attività che srotola una filiera di diversi attività, specializzazioni e una produzione locale.

Bibliografia: Fonte wikipedia | Consigli di lettura: H. C. Andersen, Il soldatino di stagno, 1838; E. T. A. Hoffmann, Schiaccianoci e il re dei topi, 1816

Immagine: Antonio Mancini, il ragazzo con i soldatini 1876 (Philadelphia Museum of Art)

Fanti, cavalli e cavalieri. I numeri degli eserciti italiani nel Quattrocento

Il Quattrocento vede l’affermazione degli eserciti stabili che però non superarono le 20.000 unità. Anche se va detto che nelle battaglie combattute in Lombardia tra il 1425 e il 1454 l’esercito di Milano e quello di Venezia andarono molto vicini a superare quel numero. Forse esagerando, e in contraddizione con quanto affermato prima, già agli inizi del ‘400 Giangaleazzo Visconti poteva contare su 20.000 cavalieri e 20.000 fanti. Effettivamente i Visconti avevano l’esercito più numeroso e completo. Venezia nello stesso periodo aveva circa 9.000 cavalieri. Ladislao di Napoli nel 1416, poco prima della morte, ne aveva invece 16.000.

Gli eserciti di Milano e Venezia andarono sempre di pari passo ingrossando a specchio le fila degli uomini impiegati. Negli anni venti erano 10-12.000 unità fino a 20.000 negli anni quaranta. Quello fiorentino e quello pontificio erano meno numerosi, ne contavano circa 3-4.000. Nel 1472 Galeazzo Maria Sforza stava mettendo insieme un esercito di 43.000 uomini. Mai pensato, schierato e organizzato un esercito di tale numero.

I principi-condottieri, nonostante il loro ruolo spesso determinante, potevano contare su eserciti più ridotti. Ludovico II Gonzaga, che già ricopriva il grado i luogotenente generale di Milano, aveva a Mantova 1.300 cavalieri ma che in tempo di guerra saliva a 3.000. Da considerare che all’epoca la popolazione della città era di poco superiore ai 10.000 abitanti.

Bibliografia: Michael Mallett, Signori e mercenari. La guerra nell’Italia del Rinascimento, Il Mulino 1983

Immagine: La battaglia di San Romano (Paolo Uccello, 1438 – National Gallery)

I Musei Capitolini. Il papa, il colosso di Costantino e la prima collezione

Roma 1471. Il Papa Sisto IV dona alla città di Roma una straordinaria collezione di statue antiche – bronzi – già provenienti dal Laterano. Vengono collocate nel cortile del Palazzo dei Conservatori e sulla piazza del Campidoglio divenendo – ma al tempo non lo potevano sapere – il museo più antico del mondo. Quei bronzi la Lupa, lo Spinario, il Camillo e la testa di Costantino con il globo e la mano – costituirono il primo nucleo del museo attuale.

Anche se, è bene ricordare, la funzione pubblica del museo arrivò solo qualche secolo più avanti con Clemente XII nel 1734. Il suo successore, Benedetto XIV, inaugura la Pinacoteca capitolina grazie all’acquisizione di opere provenienti dalle collezioni private delle famiglie Scacchetti e Pio.

Così, dopo un lungo abbandono, disinteresse e spoliazioni, Roma ritorna ad essere il centro della vita religiosa e artistica. Allo stesso modo ritorna al centro degli interessi e degli spazi civici anche il Campidoglio, sede delle magistrature civili cittadine nel Medioevo. Inizialmente le sculture furono sistemate sulla facciata esterna e nel cortile del Palazzo. Il primo nucleo in breve venne arricchito di nuove opere grazie alle acquisizioni e ai reperti degli scavi urbani. Nella metà del Cinquecento è la volta della statua di Ercole in bronzo dorato proveniente dal Foro Boario, alcune parti dell’acrolito di Costantino dalla Basilica di Massenzio, i tre pannelli a rilievo con le imprese di Marco Aurelio e il Bruto Capitolino. Allo stesso periodo corrispondono le due colossali statue del Tevere e del Nilo dal Quirinale.

La statua colossale di Costantino – testa, mani, piedi e parte delle braccia – sono state rinvenute nel 1486 quando era papa Innocenzo VIII. La statua è stata rinvenuta nell’abside occidentale della Basilica di Massenzio. La scultura – probabilmente un acrolito – doveva raggiungere un’altezza complessiva di circa 12 metri. La sola testa misura 2,60 metri e il piede 2. La datazione dell’opera oscilla tra il 313 e il 324 d.C.

La statua equestre di Marco Aurelio, l’opera simbolo e forse più famosa, fu portata qui nel 1538 dal Laterano per volere del papa Paolo III. Quella esposta oggi al centro della piazza è una copia. Tutto era pronto per il Giubileo del 1475, la prima volta che il grande evento religioso si chiamava in quel modo. La parola deriva dall’ebraico Jobel che significa “caprone” in riferimento al corno di montone utilizzato nelle cerimonie sacre.

Bibliografia: http://www.museicapitolini.org/ | Le sculture del Palazzo Nuovo. Musei Capitolini, Campisano Editore 2018

Immagine: Sculture del cortile del Palazzo dei Conservatori

Ciarlatani, speziali e cavadenti. La medicina a Mantova nel Settecento

16 agosto 1768. Maria Teresa d’Austria proibisce alle spezierie religiose di vendere medicinali al pubblico. Questi potevano solamente essere dati come dono agli ammalati poveri. Le tariffe dei medicinali, in genere, dovevano essere controllate dal Collegio dei medici e poi passare all’approvazione da parte del Consiglio di Giustizia.

Com’erano i medici mantovani nel Settecento? Non così all’avanguardia. Infatti non si scostarono molti dalle tradizionali e precedenti teorie degli umori. La Medicina, nonostante le riforme austriache e la creazione di un’accademia dedicata (1768), continuava a basarsi sui preparati dei secoli precedenti. Solo in qualche occasione si introducono nuove profilassi come la vaiolizzazione. Continuavano inoltre ad essere confermati i vecchi privilegi. I medici non erano tenuti a presentare la parcella per ottenere l’onorario ma bastava dichiararlo oralmente. I chirurghi invece, come i farmacisti, dovevano averla scritta. I medici stranieri che volevano esercitare in città dovevano sostenere gli esami previsti dagli statuti. Non seguivano lo stesso iter i cavadenti. I ciarlatani invece dovevano chiedere al Collegio dei Medici prima di vendere i loro preparati. Gli speziali, in una comunicazione del 1773, dovevano “levarsi di notte o far levare qualcheduno de’ suoi per somministrare, quando occorra, il bisognevole rimedio a quelli che lo ricercano, massime se a Persone Nobili”.

Il Collegio degli Speziali nella metà del Settecento ha una nuova sede. Nello Statuto dei farmacisti – 30 giugno 1755 – si sposta all’angolo di via Chiassi con via de’ Cani. Su una pietra angolare è incisa la data 1754.

Bibliografia: La città di Mantova nell’età di Maria Teresa, Regione Lombardia, Mantova 1980

Immagine: Pietro Longhi, La bottega dello speziale, 1752 circa, olio su tela (Venezia, Gallerie dell’Accademia)

Sainte-Chapelle e Santa Croce. La chiesa, la reliquia e il paragone non impossibile

Nella civitas vetus – area di piazza Sordello – era presente una chiesa dedicata alla Santa Croce già documentata a partire dal 1151. Probabilmente nata come parrocchiale e usata dai Bonacolsi come chiesa palatina. Nel 1421 avviene la prima demolizione. Lo stesso Gian Francesco Gonzaga ne ordina subito la ricostruzione, non prima di quella data, sul retro della Magna Domus con la facciata che dava su un cortile interno della Corte e oggi noto come di Santa Croce. Una delle chiese private all’interno del Palazzo Ducale.

La devozione da parte dei Gonzaga verso il legno della Croce è documentata dalla seconda metà del Trecento. Nei secoli di dominio la famiglia la modifica attraverso campagne decorative e cambiamenti di struttura. Prima Isabella, poi Guglielmo, Eleonora de’ Medici fino agli Asburgo dopo il 1707. Nel 1780 la chiesa e l’area che la includeva vennero stravolte e pressoché irriconoscibili.

La chiesa si doveva presentare con una facciata alta e stretta, incorniciata da due semicolonne, con tetto a capanna e tre pinnacoli. Nel Cinquecento erano presenti addirittura della statue. La struttura rispecchiava le chiese doppie di stampo medievale composte da una parte superiore e una inferiore. I due livelli, a pianta rettangolare, non erano comunicanti. Di norma in Francia erano presenti in relazione ai palazzi signorili o vescovili. La parte inferiore era aperta al pubblico “largo” mentre quella superiore solo per la corte. Chiesa palatina e chiesa reliquiario. Era ancora officiata ai primi del Settecento.

Dietro la facciata si ergeva un magro campanile, dall’alto pinnacolo piramidale che venne abbattuto attorno al 1779-80, anni di grande riassetto del Palazzo. A fare da modello fu la Sainte-Chapelle a Parigi. Questa venne costruita a partire dal 1239 per volere di Luigi IX proprio come cappella palatina del palazzo medievale dei re di Francia. Qui doveva essere custodita la Corona di spine – donata e un frammento della Vera Croce che Luigi aveva acquistato in quell’anno. I lavori terminarono quarant’anni dopo. La reliquia della corona era stata data dall’imperatore di Costantinopoli Baldovino II come pegno per un ingente prestito in denaro. Costò la somma di 135.000 lire tornesi. L’intera cappella ne costò 40.000. Nel 1790 viene sottratta la reliquia, cambia funzione, diventa deposito e viene recuperata solo a partire dal 1836.

Due storie analoghe. Più vecchia quella mantovana, però meglio conservata quella francese.

Bibliografia: Stefano L’Occaso, La Chiesa di Santa Croce. Una “Sainte-Chapelle” nel Palazzo dei Gonzaga di Mantova, in Civiltà mantovana, anno LIII, n.145.

Immagine: Sainte Chapelle, Parigi (fonte wikipedia)

Lo studium, i Gesuiti e le facoltà. Un polo diffuso in città

L’insegnamento a Mantova fu da sempre presente con i Gonzaga. Risale al 1433 la concessione imperiale di aprire in città uno studium. Fu proprio il primo marchese Gianfrancesco ad ottenerla. Lo stesso ordine degli Agostiniani conferì numerose lauree fino alla seconda metà del Settecento.

Si arriva così al 1767 quando Maria Teresa fonda l’Accademia scientifica. Il Ginnasio era stato istituito prima, il 14 agosto 1760, inaugurato poi nei primi di novembre dello stesso anno. L’anno seguente il Ginnasio comprendeva tre facoltà: teologia, giurisprudenza e medicina. In parte la gestione era stata sottratta ai Gesuiti. Così cominciava il braccio di ferro del governo austriaco per avere il controllo diretto sugli studi. Anche se a capo del Ginnasio era ancora il vescovo di Mantova e tutte le facoltà avevano il potere di conferire lauree dottorali. Si aggiunge la facoltà di filosofia. Nel 1783 il Ginnasio era una scuola di materia umanistiche e i corsi universitari erano stati soppressi.

Ma torniamo prima del 1773 ovvero quando ancora non era stato soppresso l’ordine dei Gesuiti e quando da più di 170 anni occupavano l’area del Palazzo degli Studi. All’inizio del Settecento i Gesuiti decidono di costruire una nuova sede per l’attività scolastica. Acquistano le case vicine al Collegio: Palazzo Preti, Casa Porri e Casa della Scoletta. L’architetto fu Alfonso Torreggiani. I lavori durarono dieci anni per un costo di 100.000 fiorini.

Nel palazzo si svolgevano lezioni di grammatica, umanità, retorica, filosofia, logica, metafisica, fisica teorica e sperimentale. La cattedra di clinica e anatomia avevano sede nell’Ospedale Grande. Un polo diffuso che coinvolgeva anche l’Accademia con la sezione di medicina e chirurgia, Sant’Agnese per le lezioni giuridiche. Il Palazzo diventa la sede del Museo, della Biblioteca civica e del Gabinetto di fisica e storia naturale, dal quale dipendeva l’Orto Botanico.

I finanziamenti per i corsi di studio e pagare gli insegnanti provenivano da lasciti, donazioni e dalle rendite elargite da Eleonora d’Austria, consorte del duca Guglielmo. L’offerta era esclusiva solo per i ceti più abbienti. Dopo il 1630 l’Università mantovana subisce il tracollo della città. Nel 1760 l’ex Ginnasio diventa il Regio Arciducale Ginnasio.

Bibliografia: Gaetano Gasperoni, Il Ginnasio settecentesco di Mantova, in Civiltà mantovana, anno X, 1976 | Ugo Bazzotti-Daniela Ferrari, Il Palazzo degli studi : appunti per una storia dell’istruzione superiore a Mantova : luoghi e vicende dal Collegio dei Gesuiti al Liceo Ginnasio Virgilio, Mantova, Palazzo Ducale, Sala Novanta, 8-27 ottobre 1991.

Immagine: Ingresso al Palazzo degli Studi, dettaglio (fonte wikipedia)

Un arsenale in una chiesa. Il santo, il medico e una vecchia porta comunale

Dici Venezia e pensi ad un Arsenale. Dici Mantova e gli arsenali erano diversi. Si trattava di conventi sopravvissuti e riadattati a scopi militari come deposito di munizioni e artiglieria. E’ questo il caso della Chiesa di San Francesco abbandonata nel 1782 dopo che l’ordine francescano è stato soppresso. Fu trasformata in arsenale nel 1811. Fuori il gotico del Trecento e dentro l’arte militare. E lo spazio attorno, così largo, si chiamò giustamente piazza Arsenale.

Fu cominciata nel 1853 come protezione per la ex chiesa con alte mura, fabbricati con feritoie e una fossa riparata che la separava dalla strada. Le case vicine vennero abbattute e così pure l’arco sul ponte del Rio ovvero l’antica Porta Nuova – e non come la tradizione raccontava eretto dal medico Battista Fiera – fatta costruire dal Comune nel 1240. Questa porta nel Cinquecento era chiamata “arco di San Francesco” e la casa attigua era abitata da quel medico che proprio sotto l’arco fece erigere i tre busti in terracotta. Virgilio, Francesco II Gonzaga e Battista Spagnoli. Sopra la porta della casa era scritto a lettere cubitali “Bonis mercurialibus”. I tre busti oggi sono conservati nel Museo del Palazzo di San Sebastiano. La piazza Arsenale fu terminata nel 1883. Ci sono voluti trent’anni.

C’era un torrione rotondo, maestoso e merlato, realizzato sempre nel 1853. Era munito di grandi cannoni al piano terreno e di piccoli al primo piano. Dominava le aree attorno delle contrade Solferino, Marangoni, Fratelli Bandiera e Scardellini.

Si arriva così al 1956. Nel frattempo la chiesa è stata bombardata, salvata per miracolo e ricostruito. La piazza Arsenale è diventata San Francesco, la strada è stata asfaltata, la recinzione è sparita. L’ingresso all’Arsenale era proprio sul lato d’ingresso della Chiesa. Sopra ci stava la targa che riporta in grandi caratteri “R. ARSENALE”.

Bibliografia: Andrea Pavesi, Nota sulla piazza San Francesca in Mantova, già piazza Arsenale, in Civiltà mantovana, anno VII, 1973

Immagine: Foto della piazza e dell’Arsenale prima del 1937. Fonte http://www.sanfrancescomantova.it/foto/

Una città vista dall’alto. Jacopo tuttofare o coordinatore di una squadra?

Venezia, 1497. Anton Kolb, editore e mercante tedesco residente a Venezia, commissiona a Jacopo de’ Barbari la realizzazione di una grande stampa della città. La veduta che poi prenderà il nome di VENETIE MD. 30 ottobre 1500. Dopo tre anni di lavoro la Repubblica di Venezia concede a Kolb il privilegio di stampare la xilografia di Jacopo.

Sappiamo anche che Kolb aveva lavorato in tal senso per ottenere quella concessione. Infatti nell’ottobre del 1500 aveva inviato la supplica per ottenere l’esenzione del pagamento del dazio di esportazione degli esemplari della veduta e l’esclusiva di pubblicazione. Questa concessione la ottenne per un periodo di quattro anni.

In tre anni Jacopo invece ha inciso in modo minuzioso i legni di pero delle tavole e ha soprattutto impiegato un’incredibile varietà di competenze in grado di registrare gli scorci e le differenti aree della città. Il lavoro non ha eguali precedenti. Opera del solo Barbari o di una squadra? Gli studiosi si dividono infatti tra diverse ipotesi: una serie di rilevamenti compiuti a distanza utilizzando il quadrato geometrico, un insieme di disegni prospettici eseguiti da differenti punti sopraelevati poi assemblati insieme adattati con un’unica prospettiva oppure o un lavoro cartografico partendo da un rilievo planimetrico sul quale è stato in seguito realizzato l’alzato. La differenza sta nel ruolo di Jacopo e nel numero di persone impiegate. Artista autonomo e tuttofare o solo coordinatore? Nell’ultimo caso Jacopo aveva bisogno di una squadra di collaboratori già organizzati e con precise consegne.

Non esistono documenti e fonti che facciano propendere per un’ipotesi o per l’altra. Resta possibile l’ipotesi di un lavoro autonomo e quasi del tutto finanziato da Kolb per tre anni. La città, descritta “a volo d’uccello”, è stata ripresa da sud e in primo piano ci sono la Giudecca e l’isola di San Giorgio. La deformazione e l’adattamento ad un solo punto di vista non toglie la meticolosità dei dettagli e testimonia una conoscenza visiva della città estremamente precisa. Non si tratta di una veduta solo geografica perché dai dettagli se ne può desumere l’intento celebrativo e commerciale. Il bacino e il Canal Grande sono carichi di navi e di barche segno di una costante operosità. Nettuno e Mercurio, il mare e il commercio, le navi e gli affari. Due fili di una stessa storia.

Bibliografia: Simone Ferrari, Jacopo de’ Barbari. Un protagonista del Rinascimento tra Venezia e Dürer, Mondadori 2006 | https://correr.visitmuve.it/it/mostre/archivio-mostre/a-volo-duccello-jacopo-de-barberi-e-le-rappresentazioni-di-citta/2011/10/4294/jacopo-de-barberi-una-nota-biografica/

Immagine: Particolare della veduta, Chiesa di Santa Maria della Celestia

“Maestro Jacopo” il pittore tra il Veneto e il Nord. La firma, il cartellino e il cognome

Non ci sono date di nascita e di morte. Anche il nome è incerto, così come il luogo di origine. Barbaride BarberiBarbaroBarberinoBarbarigo o Barberigo. Sono poche le notizie certe. Era pittore e incisore, Alvise Vivarini – probabilmente – fu suo maestro; tra il 1500 e il 1501 si trova in Germania, a Norimberga, doveva viveva Durer. Dai suoi contemporanei fu descritto come veneziano e nel 1511 come “vecchio e stanco”. In Germania fu conosciuto anche come Jacopo Walch, probabilmente da Wälsch ovvero straniero, un termine che spesso veniva usato per gli artisti italiani. Anche se non veniva visto come “lo straniero” perché fu molto apprezzato soprattutto nelle corti tedesche che agli inizi del Cinquecento erano affascinate dall’arte italiana. Jacopo fu un vero legante tra l’arte veneta e i pittori nordici trasportando modelli e figure che dimostrano gli interscambi tra le due aree. Un grande contributo in questo senso lo hanno dato le incisioni.

Come si vede nel dipinto in copertina – Natura morta con pernice, guanti di ferro e dardo di balestra – e datata 1504, in basso a destra Jacopo ha inserito la sua firma posta sopra ad un cartellino. E’ la maniera nordica che il pittore ha fatto sua.

In Germania lavorò per l’Imperatore Massimiliano I per un anno, poi in varie località per Federico II di Sassonia tra gli anni 1503 e 1505, prima di spostarsi presso Gioacchino I di Brandeburgo fino al 1508. Lavorò poi per Filippo I di Castiglia in Olanda fino al 1510. Nel gennaio del 1511 Jacopo fa testamento proprio a causa della malattia e della gravità delle sue condizioni. A marzo Margherita d’Asburgo gli concede una pensione a vita. Qui venne chiamato “maestro Jacopo”.

Proviamo a leggere la sua figura dalla sua firma. Infatti Jacopo firmò la maggior parte delle sue incisioni con un piccolo caduceo – il simbolo di Mercurio. Forse per dimostrare la velocità e labilità di esecuzione? Probabilmente non apparteneva all’importante famiglia dei Barbaro e non fu mai nell’elenco della genealogia di questa famiglia.

Bibliografia: Simone Ferrari, Jacopo de’ Barbari. Un protagonista del Rinascimento tra Venezia e Dürer, Mondadori 2006

Immagine: Jacopo de Barberi, Natura morta con pernice, guanti di ferro e dardo di balestra, 1504 (Alte Pinakoteck, Monaco di Baviera)

Venezia bilancio 1500. Il sale non era tutto

Così scrive nel 1495 Philippe de Commines, ambasciatore francese in visita a Venezia: “è la città più splendida che io abbia mai visto, e quella che fa più onore agli ambasciatori e agli stranieri e che si governa più saviamente”.

Oltre agli scritti diplomatici e alle apparenze di facciata sarà stato così anche nella realtà? Lo si può vedere in un bilancio della città intorno al 1500 proprio mentre Jacopo de Barbari stava ultimando la ricognizione e la mappatura della città. Non sono comprese alcune proprietà veneziane come Cipro e le più recenti al tempo Polesine, Cervia, Cremona e le città della Puglia. Le entrate espresse, in ducati, così recitano: tasse sulle vendite (consumo e merci in transito): 230.000; imposte dirette: 160.000; vendita di sale: 100.000; varie: 130.000; città di terraferma: 330.000; domini d’oltremare: 200.000. Per un totale di: 1.150.000 ducati.

Le spese, sempre espresse in ducati, vanno a bilanciare perfettamente le entrate. Varie e Ufficio del Sale: 59.000; stipendi: 26.000; interessi sui titoli statali: 155.000; spese delle città di terraferma: 90.000; spese d’oltremare: 200.000; disponibili per spese straordinarie (guerre): 620.000. Per un totale di: 1.150.000 ducati.

Balza all’occhio le spese per le città d’oltremare ovvero i costi delle navi, le fortezze, le mura e la difesa di quei domini. Solo per le città di terraferma invece le entrate erano superiori alle spese e questo creava una situazione prospera e di autosufficienza. La politica di espansione verso la terraferma ha dato i suoi frutti. Il sale per Venezia costituiva quasi il 9% delle entrate. Dopotutto il sale non era tutto. Le spese straordinarie – per la guerra – ammontano a più della metà.

Bibliografia: Frederic Lane, Storia di Venezia, Einaudi 2015

Immagine: Veduta di Venezia, Jacopo de Barbari 1500 (Museo Correr, Venezia)