Paulus spezapreda. L’origine della famiglia di Paolo Veronese

Lettera del 1553 al cardinale Ercole Gonzaga per il pagamento del dipinto destinato al Duomo di Mantova. Paolo Veronese si firma Paulus spezapreda.

Riavvolgiamo il nastro. Il nonno di Paolo, Pietro di Gabriele, proveniva da Bissone sul lago di Lugano e apparteneva a una di quelle numerose famiglie di lapicidi e scultori dei laghi lombardi che si tramandavano i saperi e che non disdegnavano di spostarsi in cerca di lavoro. Infatti, nella metà del XV secolo, arrivano a Verona. La prima attestazione di Pietro risale al 1502 di anni 28, definito “petrus lapicida de Como” e residente presso la contrada di San Paolo con la moglie Lucia e il figlio Gabriele. Quest’ultimo sarà il futuro padre di Paolo Veronese.

A Verona aprono ex novo la loro bottega in cui crescono prima Gabriele e poi il figlio Paolo. Con il termine di spezapreda o lapicida si indicava il mestiere di chi lavora la pietra, senza distinzione tra scultore e scalpellino. Pietro e Gabriele, probabilmente, avevano una bottega specializzata nella scultura ornamentale. Tra il febbraio 1531 e il marzo 1532 furono pagati per realizzare il pavimento della cappella di San Biagio nella chiesa dei Santi Nazaro e Celso a Verona.

Ecco allora spiegata la sua firma per il dipinto del Duomo di Mantova – le tentazioni di Sant’Antonio – realizzato all’età di venticinque anni.

Bibliografia: Paolo Veronese, L’illusione della realtà, a cura di Bernard Aikema e Paola Marini, Electa 2014

Immagine: Lago di Lugano (fonte Wikipedia)

La scultura bolognese all’ultimo grido. Il Compianto di Niccolò dell’Arca

Niccolò dall’Arca – noto anche come Niccolò d’Apulia – nasce probabilmente a Bari ma diventa un assoluto protagonista della scultura dell’Italia settentrionale del XV secolo.

Ancora più giovane di Guido Mazzoni – nasce infatti quindici anni prima – ne anticipa il linguaggio popolare, schietto e drammatico tipico anche della scultura e pittura fiamminghe. Si stabilisce a Bologna verso il 1460 dopo aver visitato Napoli e probabilmente aver lavorato anche in Francia. Un documento del 1462 lo cita come affittuario di una bottega nei pressi della Basilica di San Petronio, con la qualifica di maestro di figure in terracotta.

Il suo capolavoro è il Compianto sul Cristo morto composto da sette figure a grandezza naturale in terracotta con tracce di policromia. Il gruppo scultoreo è databile tra il 1463 e il 1490 ma ancora oggi non si conoscono datazione e la disposizione delle figure. La resa drammatica – ascrivibile al collega modenese Mazzoni – è senza dubbio sensibile alla sculture della Borgogna, al gotico d’oltralpe e alle soluzioni dell’ultimo Donatello come la Maddalena. Come per Mazzoni non si esclude uno sguardo più nostrano alle attività dei pittori ferraresi in quegli anni presenti e attivi anche a Bologna come Ercole de’ Roberti. Gli affreschi perduti della Cappella Garganelli rappresentano proprio l’esempio più diretto. Le figure, quasi elettriche, sembrano attraversate da un vento che ricama svolazzi e un’infinita gamma di pieghe delle vesti. I volti trasmettono una tale sofferenza che tradisce un forte richiamo alla pittura. Inevitabile quasi sentirlo l’urlo delle bocche spalancate.

Il gruppo scultoreo oggi si trova nella Chiesa di Santa Maria della Vita ma venne ospitato a lungo presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna, fino agli anni novanta.

Bibliografia: Tra la Vita e la Morte : due confraternite bolognesi tra Medioevo e Età Moderna, SilvanaEditoriale, Milano, 2015 a cura di Massimo Medica e Mark Gregory D’Apuzzo

Immagine: Compianto sul Cristo morto, Chiesa di Santa Maria della Vita

I Musei Capitolini. Il papa, il colosso di Costantino e la prima collezione

Roma 1471. Il Papa Sisto IV dona alla città di Roma una straordinaria collezione di statue antiche – bronzi – già provenienti dal Laterano. Vengono collocate nel cortile del Palazzo dei Conservatori e sulla piazza del Campidoglio divenendo – ma al tempo non lo potevano sapere – il museo più antico del mondo. Quei bronzi la Lupa, lo Spinario, il Camillo e la testa di Costantino con il globo e la mano – costituirono il primo nucleo del museo attuale.

Anche se, è bene ricordare, la funzione pubblica del museo arrivò solo qualche secolo più avanti con Clemente XII nel 1734. Il suo successore, Benedetto XIV, inaugura la Pinacoteca capitolina grazie all’acquisizione di opere provenienti dalle collezioni private delle famiglie Scacchetti e Pio.

Così, dopo un lungo abbandono, disinteresse e spoliazioni, Roma ritorna ad essere il centro della vita religiosa e artistica. Allo stesso modo ritorna al centro degli interessi e degli spazi civici anche il Campidoglio, sede delle magistrature civili cittadine nel Medioevo. Inizialmente le sculture furono sistemate sulla facciata esterna e nel cortile del Palazzo. Il primo nucleo in breve venne arricchito di nuove opere grazie alle acquisizioni e ai reperti degli scavi urbani. Nella metà del Cinquecento è la volta della statua di Ercole in bronzo dorato proveniente dal Foro Boario, alcune parti dell’acrolito di Costantino dalla Basilica di Massenzio, i tre pannelli a rilievo con le imprese di Marco Aurelio e il Bruto Capitolino. Allo stesso periodo corrispondono le due colossali statue del Tevere e del Nilo dal Quirinale.

La statua colossale di Costantino – testa, mani, piedi e parte delle braccia – sono state rinvenute nel 1486 quando era papa Innocenzo VIII. La statua è stata rinvenuta nell’abside occidentale della Basilica di Massenzio. La scultura – probabilmente un acrolito – doveva raggiungere un’altezza complessiva di circa 12 metri. La sola testa misura 2,60 metri e il piede 2. La datazione dell’opera oscilla tra il 313 e il 324 d.C.

La statua equestre di Marco Aurelio, l’opera simbolo e forse più famosa, fu portata qui nel 1538 dal Laterano per volere del papa Paolo III. Quella esposta oggi al centro della piazza è una copia. Tutto era pronto per il Giubileo del 1475, la prima volta che il grande evento religioso si chiamava in quel modo. La parola deriva dall’ebraico Jobel che significa “caprone” in riferimento al corno di montone utilizzato nelle cerimonie sacre.

Bibliografia: http://www.museicapitolini.org/ | Le sculture del Palazzo Nuovo. Musei Capitolini, Campisano Editore 2018

Immagine: Sculture del cortile del Palazzo dei Conservatori

Miracoli e miracolati. I manichini del Santuario di Grazie

Le chiese medievali sono da intendersi sicuramente come i primi musei di storia e scienze naturali e le prime raccolte di bizzarrie e maravaglia. E il Santuario della Madonna delle Grazie non sfugge a questa tipologia. Di origine antecedente al XIII secolo ma edificata alla fine del XIV secolo, la chiesa presenta all’interno della navata centrale, su entrambi i lati, un impalcato ligneo ovvero un’architettura di ex-voto collocato a tre metri da terra. All’interno dei 73 vani sono collocate statue a grandezza naturale che raffigurano i miracolati ovvero coloro che hanno chiesto una grazie e sono stati accontentati. Ventinove statue sono senza iscrizione mentre tutte le altre riportano nei tondi in pergamena le iscrizioni della richiesta di grazia. L’intero impalcato si presenta ricoperto da una serie di elementi antropomorfi: mani, piedi, seni, cuori e bubboni realizzati in cera a stampo, smontati e ricollocati nel corso dei secoli. Chi chiedeva la grazia erano gli abitanti del borgo in gran parte pescatori e contadini che durante il lavoro poteva ferirsi mani e piedi e per cui era indispensabile una pronta guarigione che andava oltre la semplice cura medica. All’interno della chiesa, nel Cinquecento, si potevano trovare appesi imbarcazioni, reti e remi ovvero ciò che i pescatori potevano offrire come ex-voto. Da qui il nome “Madonna delle Grazie”.

L’autore della maggior parte dei manichini è Frate Francesco da Acquanegra, un religioso attivo nel Cinquecento che praticava anche l’arte della scultura. Le statue, da lui realizzati con la tecnica della cartapesta, presentano materiali poveri tra cui carta, tela indurita con il gesso, crine equini per i capelli e ghiande per altri particolari. Gli abiti dei manichini sono stati prodotti con pezzi di cotone tessuto e applicati alle statue con ganci, risalenti alla fine dell’Ottocento. Tra questi manichini, negli anni trenta del Novecento, sono stati recuperati pezzi di armature gotiche di manifattura italiana. Ricomposte e riassemblate oggi si trovano all’interno del Museo Diocesano.

Sotto le nicchie sono presenti delle metope – oggi in italiano volgare ma probabilmente nel Quattrocento in latino – che riportano la grazie ricevuta. Non sempre il manichino coincide con la “sua” grazia per via degli spostamenti avvenuti nel secolo scorso. Alcuni esempi di iscrizioni che, come una Spoon River del passato, ci riporta l’autentica voce di persone diventate manichini.

  • metopa dell’impiccato: IO VEGGO E TEMO ANCOR LO STRETTO LACCIO; MA QUANDO PENSO CHE TU L’HAI DISCIOLTO RIBENEDICO IL TUO PIETOSO BRACCIO.
  • metopa dell’uomo appeso per le mani: DALLA FUNE, ONDE IN ALTO ERA SOSPESO, VERGINE BENEDETTA IO TE CHIAMAI, LEGGER DIVENNI, E NON RIMASI OFFESO.
  • metopa del condannato alla ghigliottina: PER MIO DELITTO CONDANNATO A MORTE, E INVAN DATOMI UN COLPO IL GIUSTIZIERE L’ALTRO SOSTENNE POR TUA DESTRA FORTE.
  • metopa del condannato ad essere gettato dentro un pozzo: FUOR D’ESTO POZZO FUSCI LIBERO E SCIOLTO COL GRAVE SASSO, CHE PENDEA DAL COLLO, PERCHÉ FUI DA LE TUE BRACCIA ACCOLTO.
  • metopa del guerriero vicino al suo cannone: QUESTA DI FUOCO RAPIDA PROCELLA PER COLEI SOLO NON PROVAI NOCENTE, CHE PUÒ SPEZZAR DI MORTE LE QUADRELLA.

 

Immagine: Interno del Santuario, fotografia di Andrea Premi 1908 

Bibliografia: Paolo Bertelli, Il santuario della Beata Vergine delle Grazie in Curtatone, in Curtatone. I segni della storia, Sometti 

L’anno dei tre papi e il primo David di Donatello

Pisa, 25 marzo 1409. Nella città da poco conquistata da Firenze si riunisce il Concilio. Dal 1378 la Chiesa era divisa da uno scisma religioso e geografico. Roma e Avignone, Papa e Antipapa. Una parte dell’Europa riconosceva un papa e l’altra metà un papa “oppositore”. Una situazione non più sostenibile e tollerabili. Da trent’anni si sono succeduti 4 papi e 2 antipapi. La cattedrale di Pisa accoglie 4 patriarchi, 22 cardinali, 80 vescovi, i rappresentanti di 100 vescovi assenti, 87 abati, 41 tra priori e generali di ordini religiosi, 300 dottori in teologia e un novero di ambasciatori dei sovrani d’Europa. Per un totale di oltre 600 persone. Il concilio viene presieduto dal cardinale Guy de Malesec. Unici due assenti sono proprio il papa Gregorio XII e l’antipapa Clemente VII che convocarono due concili alternativi – e disertati da tutti – a Perpignano e ad Aquileia. Oltre 600 persone, disobbedienti ai due papi, si ritrovano a Pisa per decidere se il Concilio appena riunito era o meno superiore all’autorità papale. La presenza in massa già aveva risposto. L’azione immediata fu di deporre il papa e l’antipapa.

Ma l’errore fu la fretta. Non si aspettò la riforma ma si elesse subito un nuovo papa. Il 15 giugno i cardinali si riuniscono nel Palazzo arcivescovile e dopo 11 giorni eleggono il cardinale Pietro Philarghi. Con il nome di Alessandro V è il nuovo papa. I due papi deposti si rifiutarono di accettare la sentenza del Concilio. Così il 1409 è passato alla storia per avere tre papi. Gregorio XII, Clemente VII e Alessandro V.

A Firenze invece Donato di Niccolò di Betto Bardi – ovvero Donatello – realizza la sua prima opera. Ritornato nel 1404 dal viaggio a Roma con Brunelleschi, Donatello lavora nella bottega di Lorenzo Ghiberti alla creazione dei modelli in cera per la porta nord del Battistero. Alla data 1409 l’artista lavora per l’Opera del Duomo. Il David è una delle prime opere riferibili a Donatello. Misura 191 centimetri di altezza, in marmo bianco. La scultura viene collocata sulla facciata esterna del duomo – nel contrafforte della tribuna nord – ma ci rimane solo per altri sette anni. La statua era troppo piccola. Nel 1416 venne spostato nel Palazzo Vecchio ed esposto come simbolo della sede civica. La figura del David, come quella di Michelangelo, simboleggerà la forza indomita della Repubblica. Così recita l’iscrizione sul basamento: pro patria fortiter dimicantibus etia adversus terribilissimos hostes Dii prestant auxilium. 

Bibliografia: http://www.festivaldelmedioevo.it/portal/linutile-concilio-di-pisa/ G. F. Young, I Medici, Salani Editore 2016

Immagine: Foto tratta da https://www.arteworld.it/david-donatello-analisi/ | David, particolare. Museo Nazionale del Bargello, Firenze

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Mantegna, il Magnifico e il modello per il giardino di San Marco

Nel 1483 Lorenzo il Magnifico visita Mantova e si reca ad incontrare Andrea Mantegna. In questo periodo, all’interno del peregrinare dell’artista tra un’abitazione e l’altra, si è da poco trasferito nella contrada della Pusterla o di San Domenico per poter seguire i lavori nella fabbrica della sua futura abitazione di via Acerbi. I lavori erano cominciati nel 1476 su un’area forse donata come regalia da Ludovico II per la fine dei lavori nella Camera degli Sposi. Mantegna per questa attesa risiede in una delle case dei Malatesta per circa 14 anni. I lavori

Il signore di Firenze se driciò a casa de Andrea Mantegna dove la vite cum grande appiacere alcune pitture d’esso Andrea, et certe teste di relevo cum molt’altre cose antiche, che pare molto se ne diletti.

Mantegna accoglie Lorenzo all’interno della fabbrica di via Acerbi anche se non ultimata. Probabilmente gli presentò il progetto e l’idea di utilizzare il cortile al centro della dimora come museo per poter allestire la sua collezione di statue e reperti antichi. Il cortile – che unisce e sublima la forma del cilindro a quella del cubo, una dentro l’altra – può aver sollecitato la mente artistica e sensibile di Lorenzo che qualche anno dopo realizzerà una sorta di “palestra di scultura” nel giardino di San Marco. Già dal Medioevo esisteva un’area verde ed era conosciuto con l’appellativo di Cafaggio ovvero riserva di caccia. Proprio qui nel Quattrocento si svilupperà il quartiere mediceo con il Palazzo Medici e alle chiese patronali di San Lorenzo e San Marco. All’interno del giardino, su idea del Magnifico, si esercitavano i giovani scultori emergenti a modellare e creare le loro opere regolandosi sul gusto di corte e sui modelli antichi. Qui, in questa palestra che lo stesso Lorenzo sovrintendeva, troveranno spazio i molti allievi di Domenico Ghirlandaio tra cui Michelangelo.

Bibliografia: Gianfranco Ferlisi, Ab Olympo. Il Mantegna e la sua dimora, Provincia di Mantova 1995

Immagine: Parte del cortile della dimora di via Acerbi 

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Giardino di San Marco nella pianta del Buonsignori, 1584

La scalata di Ferrante Gonzaga. Cavaliere, cortigiano, sovrano.

Guardando il ritratto si può pensare che, cambiando il volto con quello di Filippo II, forse il risultato non cambierebbe. La sua fu una vita all’insegna della guerra e della scalata personale al successo. Non un’evoluzione ma una sommatoria di titoli. La perfetta fusione tra il cavaliere e il cortigiano di Baldassarre Castiglione.

Ferrante Gonzaga si prenderà qui il suo meritato spazio per essere stato l’uomo di fiducia dell’imperatore Carlo V e centrale nella politica italiana del Rinascimento. A suo malgrado sarà anche il suo esecutore personale di omicidi sbarazzandosi di personaggi scomodi nei piani imperiali come è stato per Francesco Burlamacchi , Giulio Cibo Malaspina e Pier Luigi Farnese. Ferrante è stato il quinto figlio di Isabella d’Este e Francesco II Gonzaga. Nel 1523 è a Madrid alla corte di Carlo V. Nel 1526 è già capitano delle truppe imperiali, dapprima contro la Francia e nel 1527 durante il sacco di Roma. Nel 1530 comanda l’assedio di Firenze con il conseguente ritorno dei Medici. Ferrante doveva essere molto abile perché riuscì ad accumulare una serie di territori, titoli e cariche che lo portò nel 1531 ad ottenere addirittura l’onorificenza del Toson d’Oro. Anche lui non si tirò indietro nella cinica politica matrimoniale sposando Isabella di Capua e ottenendo il titolo di Principe di Molfetta. Questo si sommò agli altri: governatore di Benevento, vicerè di Sicilia dal 1535 al 1546, governatore di Milano dal 1546 al 1554. Si può acquistare una città? Ferrante l’ha fatto. La sua gloriosa collezione si arricchisce nel 1539 con la Contea di Guastalla diventandone il capostipite sborsando la cifra faraonica di 22.230 scudi d’oro alla contessa Ludovica Torelli. Sotto l’egida del Sacro Romano Impero di Carlo V ma sostanzialmente indipendente e con ampie libertà, Ferrante diventa così signore di uno stato piccolo ma tutto suo. Raffinato, luogo ospitale per cortigiani e letterati, con una zecca propria e un sistema difensivo dalla forma stellare a otto punte. Carlo V gli concesse addirittura lo scultore Leone Leoni che celebrò Ferrante come un forte condottiero antico che calpesta un satiro e un’idra simboli di vizio, invidia e calunnia. Un bel monito contro tutti.

Bibliografia: Elena Bonora, Aspettando l’imperatore. Principi italiani tra il papa e Carlo V, Einaudi 2014

Immagine: Ritratto di Ferrante Gonzaga, XVI secolo 

1506. Muore Andrea Mantegna, rinasce il Laocoonte e molti altri fatti

14 gennaio 1506. Quell’anno doveva essere speciale e lo si capisce dalla meraviglia che esce dalla terra di Roma. Si rinnova l’interesse per l’antico e le rovine attraverso gli scavi, strumento di conoscenza e di appropriazione di nuovi materiali edili. Quasi si grida al miracolo: viene riportata alla luce la statua del Laocoonte in una vigna sul Colle Oppio.

Fine settembre 1506, Mantova. Lorenzo Costa termina L’allegoria della corte di Isabella, quarto quadro che doveva allestire i suoi personalissimi spazi in Castello. Il quinto sarebbe arrivato solo nel 1511 ancora per mano del Costa. Non poteva saperlo Lorenzo, o forse in parte sì, che cosa stava accadendo o cosa sarebbe accaduto in quel stretto giro di mesi. Una notizia la sapeva e lo riguardava da vicino. Il 13 settembre era morto Andrea Mantegna, il ruolo di pittore di corte sarebbe spettato a lui. A Mantova è di nuovo turno di peste: i cittadini rimangono, i Gonzaga fuggono. Francesco a Gonzaga, Isabella con i figli nella residenza di Sacchetta. Il 25 settembre muore Filippo il Bello, marito di Giovanna d’Aragona e Castiglia (detta la Pazza ma in fondo aveva i suoi buoni motivi per non essere del tutto lucida). Forse avvelenato da Ferdinando d’Aragona, suo suocero. A Ferrara, per la serie “fratelli coltelli” è tempo di congiura. Giulio e Ferrante d’Este provano a usurpare il potere ad Alfonso I e Ippolito. Lucrezia Borgia è in cinta e si ritrova in losche trame familiari che le ricordano Roma. E’ l’anno della posa della prima pietra del nuovo cantiere di San Pietro affidato a BramanteGiulio II, il papa guerriero, riconquista i territori di Perugia e soprattutto Bologna, conseguenza i Bentivoglio lasciano la città e il loro palazzo distrutto un anno dopo dalla furia dei cittadini.

Isabella d’Este si chiude in una parentesi d’arte. Commissiona ai fratelli Mola le otto tarsie lignee per creare gli sportelli che rivestiranno le pareti della Grotta. In quegli stessi mesi, prima della morte di Andrea Mantegna, aveva portato a termine il suo acquisto più cinico e ostinato. Il busto della Faustina di Mantegna, opera antica a lui tanto cara.

Bibliografia: Daniela Pizzagalli, La signora del Rinascimento, BUR 2013

Immagine: Lorenzo Costa, Allegoria della corte di Isabella, 1506 (Louvre)

Properzia l’unica donna nelle Vite di Vasari

0,6%. E’ questo il dato se calcoliamo la presenza delle artiste all’interno delle Vite di Vasari. Su circa 170 nomi ne figura uno, quello di Madonna Properiza de’ Rossi, di professione scultrice. Nasce a Bologna, figlia di un notaio, si formò nella bottega di Marcantonio Raimondi. Tra il 1525 e il 1526 la troviamo nel cantiere della Basilica di San Petronio. Vasari la chiama femmina scultora. La Vita di Properzia occupa circa due pagine, una percentuale ancora più bassa dello 0,6% rispetto all’intero volume, ma la prima parte è dedicata all’elogio delle donne nella cultura antica greca, romana e attuale del Rinascimento. Vasari forse non usa i termini del politically correct, e certamente c’è un fondo sempre di tacito maschilismo, ma c’è da credergli quando scrive che le donne “né si son vergognate, quasi per torci il vanto della superiorità, di mettersi con le tenere e bianchissime mani nelle cose mecaniche e fra la ruvidezza de’ marmi e l’asprezza del ferro, per conseguir il desiderio loro e riportarsene fama”. Vasari femminista? Non ci si può spingere a dire tanto. Continua scrivendo che era una “giovane virtuosa, non solamente nelle cose di casa, come l’altre, ma in infinite scienze che non che le donne, ma tutti gli uomini gl’ebbero invidia”. E’ presente un certo pensiero che vede Properzia come un’eccezione – “capriccioso e destrissimo ingegno” – e non come una possibilità per tutte le donne. Properzia, nel bassorilievo in marmo Giuseppe e la moglie Putifarre, oltre a dimostrare le sue altissime qualità, si inserisce nello spirito del tempo, o meglio del decennio. Le sue figure sensuali, serpentine, robuste sono la sintesi tra la compostezza di Raffaello, il vigore di Michelangelo, gli esperimenti di Giulio Romano e tutta la produzione romana prima del sacco del 1527. Quella presa possente non è meno potente di un muscolo dipinto da Michelangelo. Tutto da scoprire il motivo che hanno portato Vasari ad inserire Properzia come unica donna delle sue Vite. Il perché va contestualizzato alla sua epoca ma forse non basta più come spiegazione.

Bibliografia: Giorgio Vasari, Le Vite

Immagine: Bassorilievo Giuseppe e la moglie Putifarre