Il lavoro del boia al tempo della ghigliottina

La vita del boia quanto cambia dal Medioevo alla Rivoluzione francese? Proviamo a leggerlo dall’eccellente trilogia scritta da Hilary Mantel. Si può affermare che il mestiere del boia subirà delle modifiche proprio con l’introduzione della ghigliottina. Fino a quel momento il suo lavoro era “manuale”, non molto intenso e contenuto nelle spese. Con la cosiddetta fase del Terrore la situazione cambia. Al suo salario devono essere sottratte le paghe di più assistenti – da due a sette – e il noleggio di una dozzina di carretti quando prima ne erano sufficienti due. In più dovrà sempre pagare il boia, di tasca propria, la corda per legare i condannati e le ceste di vimini in cui verranno raccolti i cadaveri. Il numero delle teste da tagliare aumenta, negli anni ’90 sono già una trentina al giorno. Più teste, più sangue che sporca e rovina gli abiti. Spesso il boia è costretto a decapitare cadaveri quando i condannati sono riusciti, già prima dell’esecuzione, a togliersi la vita. E poi la segatura gettata nelle vicinanze della ghigliottina per asciugare il sangue ed evitare il puzzo che ne deriverebbe a fine giornata. Senza contare il costo dell’uomo che affila la lama.

Non si lavora di meno con la ghigliottina. Il boia deve lavorare di più e prende un salario inferiore.

Il boia, un tempo, era una persona stimata, con delle leggi apposite che proibivano di insultarlo. E aveva un pubblico fisso che lo seguiva durante le condanne. Prima si celebrava una messa per il condannato. Mentre ora tutto assume la velocità infernale di una fabbrica, “sembra di lavorare in un mattatoio”.

Bibliografia: Hilary Mantel, I giorni del terrore, Fazi Editore 2015

Immagine: Esecuzione di nove emigrati sulla ghigliottina nell’ottobre 1793

Sainte-Chapelle e Santa Croce. La chiesa, la reliquia e il paragone non impossibile

Nella civitas vetus – area di piazza Sordello – era presente una chiesa dedicata alla Santa Croce già documentata a partire dal 1151. Probabilmente nata come parrocchiale e usata dai Bonacolsi come chiesa palatina. Nel 1421 avviene la prima demolizione. Lo stesso Gian Francesco Gonzaga ne ordina subito la ricostruzione, non prima di quella data, sul retro della Magna Domus con la facciata che dava su un cortile interno della Corte e oggi noto come di Santa Croce. Una delle chiese private all’interno del Palazzo Ducale.

La devozione da parte dei Gonzaga verso il legno della Croce è documentata dalla seconda metà del Trecento. Nei secoli di dominio la famiglia la modifica attraverso campagne decorative e cambiamenti di struttura. Prima Isabella, poi Guglielmo, Eleonora de’ Medici fino agli Asburgo dopo il 1707. Nel 1780 la chiesa e l’area che la includeva vennero stravolte e pressoché irriconoscibili.

La chiesa si doveva presentare con una facciata alta e stretta, incorniciata da due semicolonne, con tetto a capanna e tre pinnacoli. Nel Cinquecento erano presenti addirittura della statue. La struttura rispecchiava le chiese doppie di stampo medievale composte da una parte superiore e una inferiore. I due livelli, a pianta rettangolare, non erano comunicanti. Di norma in Francia erano presenti in relazione ai palazzi signorili o vescovili. La parte inferiore era aperta al pubblico “largo” mentre quella superiore solo per la corte. Chiesa palatina e chiesa reliquiario. Era ancora officiata ai primi del Settecento.

Dietro la facciata si ergeva un magro campanile, dall’alto pinnacolo piramidale che venne abbattuto attorno al 1779-80, anni di grande riassetto del Palazzo. A fare da modello fu la Sainte-Chapelle a Parigi. Questa venne costruita a partire dal 1239 per volere di Luigi IX proprio come cappella palatina del palazzo medievale dei re di Francia. Qui doveva essere custodita la Corona di spine – donata e un frammento della Vera Croce che Luigi aveva acquistato in quell’anno. I lavori terminarono quarant’anni dopo. La reliquia della corona era stata data dall’imperatore di Costantinopoli Baldovino II come pegno per un ingente prestito in denaro. Costò la somma di 135.000 lire tornesi. L’intera cappella ne costò 40.000. Nel 1790 viene sottratta la reliquia, cambia funzione, diventa deposito e viene recuperata solo a partire dal 1836.

Due storie analoghe. Più vecchia quella mantovana, però meglio conservata quella francese.

Bibliografia: Stefano L’Occaso, La Chiesa di Santa Croce. Una “Sainte-Chapelle” nel Palazzo dei Gonzaga di Mantova, in Civiltà mantovana, anno LIII, n.145.

Immagine: Sainte Chapelle, Parigi (fonte wikipedia)

Nicolas Flamel vero alchimista? La storia di una leggenda

Pontoise, 1330. Due anni dopo la cacciata dei Bonacolsi nasce Nicolas Flamel. Da due anni a Mantova si era impiantato a forza e a richiesta il Capitano del Popolo Luigi I. Iniziò la carriera come scrivano, nel 1368 sposò Perenelle, di agiate condizioni ma con due matrimoni sfortunati alle spalle da cui era rimasta vedova. Tra i diversi domicili a Parigi si registra quella, ancora oggi esistente, al 51 di rue de Montmorency, una strettissima e lunga via che comincia in rue du Temple e finisce in rue Saint-Martin. Viene considerata la più antica casa in pietra di Parigi. Dal 1407 era di proprietà dei coniugi Flamel.

In una data non precisata l’abitazione viene privata del pignon ovvero la parte terminale della facciata, a forma di triangolo, di un edificio con tetto a due spioventi. Doveva essere molto imponente visto che era chiamata Maison du grand pignon. Il piano terra veniva utilizzato a fini commerciali mentre uno dei piani superiori ospitava gratuitamente poveri e bisognosi. I Flamel, molto devoti e molto attivi in azioni di beneficienza, in cambio chiedevano agli ospit di recitare ogni giorno un Padre nostro e un’Ave Maria per i defunti. Non tutti sanno che Flamel contribuì a proprie spese al restauro del Cimitero degli Innocenti di Parigi.

Il testamento del 22 novembre 1416 indica di certo una certa agiatezza ma non la straordinaria ricchezza che gli conferiscono le leggende posteriori. Sorprende la mancanza di testimonianze che confermano storicamente l’esercizio da parte di Flamel dell’alchimia. La moglie muore nel 1397 mentre i Gonzaga combattevano – e vincevano la battaglia di Governolo contro i Visconti. Nicolas muore il 22 marzo 1418 e fu sepolto a Parigi verso la fine della navata della vecchia Chiesa di Saint Jacques de la Boucherie. Dopo la distruzione del 1797 oggi rimane solo la torre.

Flamel vero alchimista oppure inventato? La data che ha costruito la figura di Flamel è il 1612 quando viene pubblicato a Parigi il libro Le livre des figures hiéroglyphiques ovvero il Libro delle figure geroglifiche. Da qui nasce tutto. I suoi viaggi, gli studi cabalistici, le formule tradotte, la pietra filosofale e l’immortalità. Ormai faceva parte di un sapere comune, di una storia accettata e adottata anche dallo stesso Newton. La ribalta arriva con nell’Ottocento con Victor Hugo, nel Novecento con il Surrealismo Breton e negli anni duemila con Harry Potter.

Bibliografia: Nicolas Flamel, Il Libro delle figure geroglifiche, Edizioni Mediterranee 1971 | Helmut Gebelein, Alchimia. La magia della sostanza, Edizioni Mediterranee 2009

Immagine: Targa sulla facciata della casa (fonte wikipedia)

Globi aerostatici nei cieli di Mantova. Esperimento un anno dopo Montgolfier

Annonay, 4 giugno 1783. I fratelli Montgolfier gonfiarono la prima mongolfiera che volò per circa 180 metri. A bordo c’era un equipaggio formato da un gallo, un’oca e una pecora. Dopo 10 minuti atterrando illesi a distanza di 2 km. Dopo 6 mesi fu la volta del fisico Jacques Charles che, con il primo aerostato a idrogeno, vola su Parigi, decollando dal giardino delle Tuileries il primo dicembre del 1783.

Anche a Mantova, questa meraviglia di fisica e di forma, sortisce un effetto di strabiliante novità. Come riporta la Gazzetta del 13 febbraio 1784 ci furono tre esperimenti in città. Domenica 8 febbraio alle ore 23 nella pubblica piazza di San Pietro “furono lasciati volare due globi aerostatici a gaz infiammabile, uno del diametro di 3 piedi circa, e l’altro di un piede e mezzo”. Se ne occupò Nicola Bartoccini, professore di Fisica e Chimica Sperimentale. L’esperimento andò così: “si sollevarono nell’atmosfera all’altezza prodigiosa di circa 300 pertiche nostre o sia 1800 bracia, ch’equivalgono a circa 3.000 piedi di Parigi”. Una volta in volo i globi non sono stati controllati nel loro movimento e andarono persi. Infatti il globo maggiore riporta un biglietto di premio per chi lo ritrova.

Lo stesso esperimento venne ripetuto il 19 febbraio 1784 facendo partire il globo questa volta dal giardino della Contessa Cristina Strozzi. Alle ore 23 si è sollevato in aria dal “diametro di un piede e mezzo di pellicole d’intestino di bue di cari colori”. Si diresse da Porta Pradella a Porta San Giorgio ma in breve tempo fu perdura di vista. Stessa ora anche per il terzo esperimento del giorno 29 febbraio dello stesso anno. Questa volta dal giardino del Palazzo del conte Don Carlo di Colloredo. Qualche giorno dopo, il 4 marzo, il globo partì dal giardino del Marchese Lelio Dalla Valle: “questa macchina, tutta di carta, ch’era di figura conica ne’ due lati inferiore” si alzò fino a 600 braccia mantovane fino a cadere sulla parte opposta del Lago Superiore. Tutto materiale per i poeti e per le mani crepitanti della folla meravigliata.

Immagine: Prima dimostrazione pubblica del volo di una mongolfiera 

Bibliografia: Luigi Pescasio, Mantova a lume di candela. Noterelle di vita settecentesca, Edizioni Bottazzi, Suzzara 1998

Un doppio di tennis tra i protagonisti del Rinascimento

Il Rinascimento è il secolo della pallacorda. Anche se nato prima, già a partire dal Duecento, è nel Cinquecento che trova la sua consacrazione grazie a giocatori di primo livello ovvero i principi. Avrebbero potuto giocare un doppio o un piccolo campionato i principali protagonisti della scena europea negli anni di Giulio Romano. Il re di Francia Francesco I, il re d’Inghilterra Enrico VIII, l’imperatore Carlo V e il duca di Mantova Federico II Gonzaga. Erano tutti giocatori appassionati e praticanti con regolare campo nei loro rispettivi palazzi. A dire il vero due di questi personaggi si sono affrontati: Carlo e Federico nell’edificio dedicato a Palazzo Te in occasione della visita dell’imperatore nel 1530. Tutti e quattro erano cavalieri e condottieri abili, atletici e prestanti. Solo gli anni, la dieta famelica e alcune cadute hanno modificato il corpo di Francesco I e soprattutto di Enrico VIII. Sarebbe stato un doppio davvero sorprendente con queste coppie: Carlo-Federico contro Enrico e Francesco. Attorno al campo le tribune dove avrebbero trovato posto ambasciatori, bisbigli, accordi politici, suggerimenti e scommesse. Anche a livello politico sono gli schieramenti che accompagneranno le cosiddette guerre d’Italia almeno fino agli anni 50. Nel 1540 morirà Federico, nel 1547 invece Enrico e Francesco.

Piccoli dati tecnici. Sorprende come nel 1571 i giocatori di pallacorda si organizzino in una vera e propria corporazione diventando così professionisti. Nella sola Parigi nel 1292 c’erano 13 produttori di palle e tre secoli dopo i campi erano in totale 250. Forse Francesco I, per tradizione e storia, partiva in vantaggio? Il gioco in Francia era conosciuto con il nome di jeu de paume ovvero gioco di palmo perché inizialmente i giocatori non utilizzavano le racchette . Queste, insieme alla rete, furono introdotte proprio nel Cinquecento.

Immagine: Gioco della pallacorda, Germania, XVII secolo. 

Cucina stellata. Quando l’artista diventa cuoco

Nel Rinascimento la cucina è diventata quella meravigliosa tavola sulla quale ogni corte ha servito piatti e sapori, a volte bizzarri e mai banali, che hanno tracciato il solco squisito della tradizione. Dietro ai piatti storie di chef, scalchi, trincianti e artisti.  Continua a leggere “Cucina stellata. Quando l’artista diventa cuoco”