Una città vista dall’alto. Jacopo tuttofare o coordinatore di una squadra?

Venezia, 1497. Anton Kolb, editore e mercante tedesco residente a Venezia, commissiona a Jacopo de’ Barbari la realizzazione di una grande stampa della città. La veduta che poi prenderà il nome di VENETIE MD. 30 ottobre 1500. Dopo tre anni di lavoro la Repubblica di Venezia concede a Kolb il privilegio di stampare la xilografia di Jacopo.

Sappiamo anche che Kolb aveva lavorato in tal senso per ottenere quella concessione. Infatti nell’ottobre del 1500 aveva inviato la supplica per ottenere l’esenzione del pagamento del dazio di esportazione degli esemplari della veduta e l’esclusiva di pubblicazione. Questa concessione la ottenne per un periodo di quattro anni.

In tre anni Jacopo invece ha inciso in modo minuzioso i legni di pero delle tavole e ha soprattutto impiegato un’incredibile varietà di competenze in grado di registrare gli scorci e le differenti aree della città. Il lavoro non ha eguali precedenti. Opera del solo Barbari o di una squadra? Gli studiosi si dividono infatti tra diverse ipotesi: una serie di rilevamenti compiuti a distanza utilizzando il quadrato geometrico, un insieme di disegni prospettici eseguiti da differenti punti sopraelevati poi assemblati insieme adattati con un’unica prospettiva oppure o un lavoro cartografico partendo da un rilievo planimetrico sul quale è stato in seguito realizzato l’alzato. La differenza sta nel ruolo di Jacopo e nel numero di persone impiegate. Artista autonomo e tuttofare o solo coordinatore? Nell’ultimo caso Jacopo aveva bisogno di una squadra di collaboratori già organizzati e con precise consegne.

Non esistono documenti e fonti che facciano propendere per un’ipotesi o per l’altra. Resta possibile l’ipotesi di un lavoro autonomo e quasi del tutto finanziato da Kolb per tre anni. La città, descritta “a volo d’uccello”, è stata ripresa da sud e in primo piano ci sono la Giudecca e l’isola di San Giorgio. La deformazione e l’adattamento ad un solo punto di vista non toglie la meticolosità dei dettagli e testimonia una conoscenza visiva della città estremamente precisa. Non si tratta di una veduta solo geografica perché dai dettagli se ne può desumere l’intento celebrativo e commerciale. Il bacino e il Canal Grande sono carichi di navi e di barche segno di una costante operosità. Nettuno e Mercurio, il mare e il commercio, le navi e gli affari. Due fili di una stessa storia.

Bibliografia: Simone Ferrari, Jacopo de’ Barbari. Un protagonista del Rinascimento tra Venezia e Dürer, Mondadori 2006 | https://correr.visitmuve.it/it/mostre/archivio-mostre/a-volo-duccello-jacopo-de-barberi-e-le-rappresentazioni-di-citta/2011/10/4294/jacopo-de-barberi-una-nota-biografica/

Immagine: Particolare della veduta, Chiesa di Santa Maria della Celestia

“Maestro Jacopo” il pittore tra il Veneto e il Nord. La firma, il cartellino e il cognome

Non ci sono date di nascita e di morte. Anche il nome è incerto, così come il luogo di origine. Barbaride BarberiBarbaroBarberinoBarbarigo o Barberigo. Sono poche le notizie certe. Era pittore e incisore, Alvise Vivarini – probabilmente – fu suo maestro; tra il 1500 e il 1501 si trova in Germania, a Norimberga, doveva viveva Durer. Dai suoi contemporanei fu descritto come veneziano e nel 1511 come “vecchio e stanco”. In Germania fu conosciuto anche come Jacopo Walch, probabilmente da Wälsch ovvero straniero, un termine che spesso veniva usato per gli artisti italiani. Anche se non veniva visto come “lo straniero” perché fu molto apprezzato soprattutto nelle corti tedesche che agli inizi del Cinquecento erano affascinate dall’arte italiana. Jacopo fu un vero legante tra l’arte veneta e i pittori nordici trasportando modelli e figure che dimostrano gli interscambi tra le due aree. Un grande contributo in questo senso lo hanno dato le incisioni.

Come si vede nel dipinto in copertina – Natura morta con pernice, guanti di ferro e dardo di balestra – e datata 1504, in basso a destra Jacopo ha inserito la sua firma posta sopra ad un cartellino. E’ la maniera nordica che il pittore ha fatto sua.

In Germania lavorò per l’Imperatore Massimiliano I per un anno, poi in varie località per Federico II di Sassonia tra gli anni 1503 e 1505, prima di spostarsi presso Gioacchino I di Brandeburgo fino al 1508. Lavorò poi per Filippo I di Castiglia in Olanda fino al 1510. Nel gennaio del 1511 Jacopo fa testamento proprio a causa della malattia e della gravità delle sue condizioni. A marzo Margherita d’Asburgo gli concede una pensione a vita. Qui venne chiamato “maestro Jacopo”.

Proviamo a leggere la sua figura dalla sua firma. Infatti Jacopo firmò la maggior parte delle sue incisioni con un piccolo caduceo – il simbolo di Mercurio. Forse per dimostrare la velocità e labilità di esecuzione? Probabilmente non apparteneva all’importante famiglia dei Barbaro e non fu mai nell’elenco della genealogia di questa famiglia.

Bibliografia: Simone Ferrari, Jacopo de’ Barbari. Un protagonista del Rinascimento tra Venezia e Dürer, Mondadori 2006

Immagine: Jacopo de Barberi, Natura morta con pernice, guanti di ferro e dardo di balestra, 1504 (Alte Pinakoteck, Monaco di Baviera)

Il Ghetto, le oche e il conteggio del catasto

Mantova 1750. In città non si potevano tenere nessun genere di animali come bovini, maiaoli e oche se non in luoghi adatti, controllati e dove il Magistrato alla Sanità aveva rilasciato la regolare licenza ad uso proprio o pubblico, di allevamento, produzione e vendita. La stessa misura si poteva leggere negli editti del 20 maggio 1701 e 30 maggio 1703 sotto i Gonzaga.

In una relazione del 1769 si rileva che nel Ghetto erano presenti migliaia di oche tenute in ambienti angusti già occupati dalla più forte densità di popolazione in città. Gli ebrei facevano commercio con le oche, le allevavano per trasformarle in salami e in altre prelibatezze.

La relazione del 18 agosto 1769 fa il punto della situazione e fa la conta di 14 anni di licenze rilasciate e numero di oche presenti. Dal 1753 al 1767 ci sono state in totale 183 licenze e 9.081 oche ovvero 648 di media all’anno. Nello specifico si rileva che se ne contano 2.066 in 43 granai delle case, 1.157 in 32 camere, 40 in una cucina sotto il secchiaro, 44 sotto 4 sottoscala, 4.837 nei 90 rivolti (sotterranei), 100 nei cortili e 80 sparse nei diversi luoghi della casa.

Negli ultimi anni registrati e soprattutto a partire dal 1762 il numero delle licenze rilasciate è diminuito in modo quasi drastico. Da 14 a 3 a 8 a 4 nel 1767 e 6 nel 1768 e 1769. A causa delle condizioni sanitarie molte licenze vennero tolte e nel complesso se ne limitarono la concessione. Il documento, unito al lavoro maniacale del catasto teresiano, documenta le condizioni di vita del Ghetto negli anni che anticipano la liberazione francese del 1797. Qui nel 1770 si contano 2.118 persone che costituivano l’8% della popolazione mantovana complessiva ma in uno spazio molto limitato. Camere, camerini, rivolti e granai creavano quel complesso labirintico e angusto dove per ogni ebreo c’erano 4,5 oche.

Bibliografia: La città di Mantova nell’età di Maria Teresa, Regione Lombardia 1980

Immagine: Patatrac, Gaetano Chierici 1890

Gli scacchi di Giulio Campi. Venere, un po’ di Medioevo e il gambetto

Non è questo il contesto per descrivere la lunga storia degli scacchi. E’ il caso di segnalare invece quante volte venga utilizzata l’immagine della scacchiera o di una partita in corso dal Medioevo fino ad oggi. L’arte lombarda e veneta ci offrono tantissimi esempi. Ci fermiamo ad analizzare il dipinto datato 1530 e realizzato dal pittore cremonese Giulio Campi.

Si notano molti personaggi maschili e femminili, ben vestiti, che stanno osservando con varie dinamiche una partita tra un uomo in armatura e una matrona dalla veste sontuosa e ornata di gioielli. Quella che in apparenza è una partita di scacchi in realtà è la rappresentazione di un rituale amoroso. Il gioco – di cui tra l’altro ignoriamo le mosse realizzate – diventa il pretesto. La scacchiera è visibile solo a metà e si trasforma nell’allusione di una tenzone amorosa. L’uomo che è cavaliere e deve dare l’assalto al cuore arroccato della dama difesa dalle sue complici compagne. Venere e Marte si sfidano. La rosa è appoggiata sul tavolo. Sappiamo benissimo che nel duello Venere vince su Marte. Nel contorno della scena tutte le “mosse” e le schermaglie che avvengono durante il duello tra chi attacca e chi difende, tra chi è cavaliere e chi è dama. Certamente il linguaggio dell’opera si muove su stereotipi e riprende ancora tenacemente la simbologia e i valori del mondo medievale.

Venere comunque vince su Marte, e questo lo sappiamo, ed era l’unico finale possibile. Mentre non sappiamo con quale mossa avrà aperto la dama. Chissà, magari proprio quella del gambetto caratterizzata dal sacrificio di uno o più pedoni già durante nella prima fase della partita. Il termine è italiano e nasce proprio nello stesso periodo del dipinto di Giulio Campi. Fu proprio nel Cinquecento in cui per la prima volta vengono teorizzate le aperture nel gioco degli scacchi. Gambetto significa “sgambetto” ovvero “trappola” e “agguato”. Il vocabolo è poi passato in moltissime delle lingue europee.

Il gambetto di donna è una delle più antiche aperture ad oggi conosciute. Luis Ramirez de Lucena, scacchista spagnolo, lo descrive in un documento del 1497. Non era un’apertura “di moda” nel Rinascimento. Diventa tale nel 1873 quando fu utilizzata in un torneo giocato a Vienna. Per chi volesse provare l’apertura queste sono le mosse: 1.d4 d5 – 2.c4

Bibliografia: fonte wikipedia per Gambetto di donna | David Schenk, Il gioco immortale. Storia degli scacchi, Mondadori 2008

Immagine: Partita a scacchi, Giulio Campi 1530 (olio su tavola, Museo civico di arte antica, Torino)

La Mantova di Antonio Maria Viani. Metamorfosi, spettacoli e costruzioni

1591. Sul libro dei viaggi del tipografo belga Theodor de Bry appaiono le prime raffigurazioni dei costumi e delle tradizioni dei nativi americani. Si conosceva un altro pezzo di mondo mentre in tutte le corti le parole d’ordine erano stupore e teatro.

Mantova, 1592. Dopo un’esperienza di cinque anni a Monaco presso il duca Guglielmo V di Baviera arriva in città il cremonese Antonio Maria Viani, architetto, pittore e scenografo. Tre anni dopo riceve l’incarico e ruolo di Prefetto alle fabbriche ducali che mantenne fino alla morte avvenuta nel 1630 che segnava anche l’epilogo delle glorie dei Gonzaga. Ha partecipato ai cambiamenti architettonici ma anche politici del Palazzo seguendo le imprese e le ambizioni degli ultimi quattro duchi: Vincenzo I, poi i suoi figli Francesco IV, Ferdinando e Vincenzo II.

VIANI SOLIDO. Il Palazzo Ducale, nei suoi 35 anni di servizio, si compone di altri luoghi specifici. Nel 1595, lungo il muro del Giardino del Baluardo, viene ricavata la Galleria delle Metamorfosi e qui troverà spazio la collezione scientifica di Vincenzo. Dal 1601 interviene sulla fabbrica di Corte Vecchia realizzando la Sala degli arcieri e gli spazi privati del duca Vincenzo. E poi la Galleria della Mostra e il Logion Serato o Lozone de’ quadri – che nel 1602 è ancora aperta e chiusa probabilmente nel 1614.  A lui si deve la definitiva comunicazione dei diversi ambienti del Palazzo attraverso un sistema di corridoi che riprendeva la funzione di quelli medicei. Viani lavora anche in contesti esterni alla corte. In ambito religioso: si occupa della cripta nella Chiesa di Sant’Andrea, realizza le chiese di San Maurizio e di Sant’Orsola, quest’ultima per Margherita sorella di Vincenzo. Fuori città prosegue la costruzione della Palazzina di Bosco Fontana – avviata alla fine del Cinquecento dal cremonese Dattari – e la sfarzosa Villa a Maderno sul Garda per Vincenzo, in realtà mai abitata. Quasi di fronte alla casa di Giulio Romano, realizza il Palazzo Guerrieri Gonzaga che nel Cinquecento appartenne Guerrieri, originari di Fermo.

VIANI EFFIMERO. Essere prefetto alle fabbriche voleva dire occuparsi anche degli apparati effimeri – pitture e architetture – per gli spettacoli e le cerimonie sacre e profane. Già nel 1595 – anno della nomina – la firma del Viani è presente sulle note di spesa e sugli ordini di pagamento per allestire una barriera nel cortile della Mostra, per il teatro di corte e la costruzione di un catafalco per le esequie del duca di Nevers. Così Viani ha preparato, in modo tecnico e creativo, per gli oltre trentanni di carnevali, giostre e tornei. Di lui non c’è rimasto un singolo disegno o bozzetto della sua attività che doveva comunque comunicare il gusto per gli artifici di prospettiva, i giochi ottici, gli elementi del paesaggio e quello bizzarri. Affascinante ma ancora tutta da definire, perché non convalidato dai documenti, la realizzazione dei due teatri, quello di corte e dei comici, quest’ultimo già in funzione nel 1609.

VIANI PITTORE. L’attività meno nota di Viani è quella di pittore. Nel 1593 realizza insieme ad Ippolito Andreasi gli affreschi del catino absidale del Duomo di Mantova. Per la chiesa di Sant’Orsola realizza la pala La Vergine presenta Santa Margherita alla Santissima Trinità. Posta sull’altare sinistra nel 1619, è un’opera dalle notevoli dimensioni – 450×374 cm – che mostra, rispetto agli esordi della carriera, una tavolozza più fredda, una grande regia della luce e un’impostazione spaziale più ardita. La tela è firmata e datata 1619, un anno dopo la morte di Margherita.

Questa è la città spettacolare che avrebbe abitato Rigoletto, il personaggio inventato da Verdi e in fondo trasposizione italiana del vero Triboulet.

Bibliografia: Claudia Burattelli, Spettacoli di corte a Mantova tra Cinque e Seicento, Casa Editrice Le Lettere, 1999 | Raffaella Morselli, Le collezioni Gonzaga. L’elenco dei beni del 1626-27, Silvana Editoriale 2000 | Stefano L’Occaso, Museo di Palazzo Ducale di Mantova. Catalogo generale delle collezioni inventariate. Dipinti fino al XIX secolo, Publi Paolini 2011

Immagine: Antonio Maria Viani offre a Margherita Gonzaga il modello della Chiesa di Sant’Orsola, 1618-20 (olio su tela, Palazzo Ducale di Mantova). Particolare

Un milanese a Praga. Dalle vetrate del Duomo alle meraviglie di Rodolfo

L’Arcimboldo lavora a Praga come pittore di corte per 25 anni. Dal 1562 al 1587 ha visto passare tre imperatori germanici. Rodolfo II certamente fu il personaggio più curioso e che fece di Praga una fucina di talenti internazionali in molti campi, soprattutto magia, astronomia e scienza. Arcimboldo pensava ai suoi quadri nella stessa atmosfera di Keplero, Brahe, Giordano Bruno, Edward Kelley e John Dee. Giuseppe, nato a Milano, era figlio di Biagio pittore accreditato presso la Veneranda Fabbrica del Duomo e discendente da un ramo cadetto di una nobile famiglia milanese, gli Arcimboldi appunto. Nel 1549, lo sappiamo dai documenti, è alle prese con i cartoni per le vetrate del Duomo. Cosa ci faceva un milanese a Praga? Il suo ruolo al servizio dell’imperatore era di ingrossare la collezione di curiosità con l’acquisto di antichità, animali impagliati e uccelli esotici. Oltre a questo ruolo doveva organizzare gli eventi di Corte e questo passava dalla realizzazione di disegni che poi sono stati raccolti nel cosiddetto Carnet di Rodolfo II. 148 disegni, custoditi presso gli Uffizi, che rappresentano costumi di scena, carri allegorici, slitte e acconciature. Nel Cabinet di Rodolfo II trovavano posto ovviamente le immagini quasi surreali di Arcimboldo, una composizione di frutta, verdura e animali che insieme raffiguravano ritratti bizzarri dalle fattezze umane ma descritti come un preciso puzzle di naturalia. Nulla però sappiamo del suo aspetto fisico. Nel 1590 appare a Mantova un trattato che descrive le sue opere compilato da Gregorio Comanini. Le produzioni dell’Arcimboldo erano considerate come fantasiose metamorfosi della natura e imitazioni di cose formate dalla natura. Un artificio che ben si inseriva nelle stranezze di un cabinet delle corti europee.

Bibliografia: Rudolf e Margot Wittkower, Nati sotto Saturno, Einaudi 2016.

Immagine: Estate 1572 

Autoritratto                              Particolare

Il pittore con un paio di ali

Paolo Guidotti, detto il Cavalier Borghese, fu uno dei primi seguaci di Caravaggio. Seconda la tradizione rinascimentale era pittore, scultore, architetto, studioso di matematica, astronomia, musica, anatomia e diritto. Come molti altri artisti del suo tempo era tuttavia incline a vizi e interessi che lo portarono ad allontanarsi dalla pittura. Seguendo i sogni di Leonardo da Vinci il pittore cercò di trovare il modo di volare. Un altro pittore, Matteo Boselli, ci fa da cronista e racconta questa storia commovente: con grand’artifizio e fatica compose d’osso di balena alcune ali, coprendole di penne, dando loro la piegatura mediante alcune molle, che egli si congegnava addosso sotto le braccia. Il tentativo di volo non andò a buon fine perché si portò avanti per la quarta parte d’un miglio in circa, non volando, secondo me ma cadendo più adagio di quello che senza l’ali egli avrebbe fatto. La parabola del suo volo precipitò sopra il tetto di una casa, sfondandolo e ritrovandosi all’interno di una stanza con una gamba rotta. Il fallimento fu grandissimo ma forse il buon Paolo se la spassò, contento di aver sorvolato il cielo anche solo per un quarto di miglio.

Bibliografia: Rudolf e Margot Wittkower, Nati sotto Saturno, Einaudi 2016

Immagine: Paolo Guidotti, Davide con la testa di Golia

Quando la tela è mobile. La Cacciata dei Bonacolsi e la firma che ancora non ho visto

La prima opera che si incontra al Palazzo Ducale di Mantova è La cacciata dei Bonacolsi, la tela di Domenica Morone datata 1494. Turisti e mantovani sanno che è lì, a presentare l’avvenimento più importante della famiglia Gonzaga. La data del 16 agosto 1328 è lo spartiacque tra due famiglie, due città, due storie. Un prima e un dopo. Ma siete davvero sicuri che la tela è sempre stata nella posizione attuale? In una guida di Mantova del 1929 ce la presenta nel Castello di San Giorgio nella Sala delle Sigle. Tre scene in una: sulla sinistra l’entrata dei Gonzaga, in primo piano la battaglia con i Bonacolsi e in secondo piano la consegna delle chiavi della città a Luigi Gonzaga nuovo Signore. Sulla tela un cortocircuito storico: la scena del 1328 e la città contemporanea al pittore Morone. Sul fondo la facciata della Cattedrale ancora nelle forme veneziane degli architetti Dalle Masegne. Come un fossile rimane ad oggi l’unica testimonianza della chiesa prima dell’intervento di Niccolò Baschiera del 1761.

La tela in origine era stata pensata per ornare una sala del Palazzo di San Sebastiano. La guida del 1929 segnala che “l’ultimo duca, nella sua frettolosa fuga, lasciò in custodia ad un suo parente. Passò poi in mano degli Andreasi, quindi dei Bevilacqua; da questi ai Gobio e ai Forchessati, finché emigrò a Milano nella Galleria Crespi”. Infine acquistata dallo Stato quando la galleria fu venduta.

Piccolo focus. Avvicinatevi alla tela. A sinistra, in basso, sul plinto di un pilastro, trovate la firma del pittore. Dominicus Moronus Veronensis pinxit 1494.

 

Bibliografia. Nino Giannantoni, Guida del Palazzo Ducale di Mantova, 1929.