Milano capitale degli scacchi. Leonardo, il rebus e l’arrocco

Il contesto lombardo e milanese nel Quattrocento vede la presenza di giocatori di scacchi unita ad una forte passione che gli Sforza hanno ereditato dai Visconti. Tanto che si può parlare di una vera e propria scuola lombarda. Questa passione coinvolgeva direttamente anche il suo committente Ludovico il Moro.

Questo è il contesto nel quale di muove la brillante mente di Leonardo da Vinci. Arrivato a Milano e sapeva già giocare a scacchi ma senza dubbio apprese nuove pratiche alla corte degli Sforza. Nei Fogli di Windsor (ad esempio il nr. 12692r) datati tra il 1484 e il 1487 è presente proprio un rebus con una innegabile immagine della torre e la cui soluzione è  “io arroccherò”. E ancora la mossa dell’arrocco ad un solo movimento non era stata inventata.

L’arrocco è una mossa che coinvolge il re e una delle due torri.  È l’unica mossa che permette di muovere due pezzi contemporaneamente nonché l’unica in cui il re si muove di due caselle. Leonardo l’aveva già “inventato” prima del Cinquecento quando si usava farla ancora con due. Questa mossa viene fatta nell’apertura e serve spostare il re in una posizione più sicura e allo stesso tempo si porta una torre in una posizione più attiva d’attacco.

Bibliografia: Davide Shenk, Il gioco immortale. Storia degli Scacchi, Mondadori 2008 | https://www.milanosud.it/le-origini-degli-scacchi-in-lombardia-tra-principi-artisti-e-scienziati-del-rinascimento/

Immagine: Ritratto di Luca Pacioli, attribuito a Jacopo de’ Barbari (Museo Nazionale Capodimonte, Napoli)

La scuola lombarda degli scacchi. Isabella d’Este gioca contro gli spagnoli

Forse possiamo dire che in origine il gioco degli scacchi fu lombardo. Le prime notizie relative a quest’area risalgono al 1300 e confermano la presenza di una propria “scuola lombarda”: giocatori bravi e regole rigide che facevano scuola in tutto il continente. I primi appassionati giocatori erano i membri della famiglia Visconti, soprattutto Valentina, la figlia di Gian Galeazzo che in dote nel matrimonio con Ludovico di Francia portò, tra le altre cose, “una preziosa scacchiera con pezzi e pedine”. Dai documenti si sa che il più noto e tenace scacchista fu Filippo Maria. I libri di testo che studiava li conservava presso il Castello di Pavia. Milano dunque faceva scuola e da qui si formavano i più bravi scacchisti italiani. Dai Visconti agli Sforza la passione non si acuisce. Accaniti giocatori furono Francesco Sforza, il figlio Galeazzo Maria e un giovane Lodovico il Moro che mantenne la passione anche negli anni di governo se in una supplica rivolta al duca di legge che “Jacopo de Conti clarico milanese filio quandom da Maystro Ambrosio che zugava a scacchi a mente”.

Giocare a scacchi era diventata ancora una professione redditizia. Sul finire del Quattrocento c’è un certo Zoane Lombardo che girava di città in città cercando personaggi abbastanza ricchi – se non addirittura i signori della Corte – per sfidarli e fare fortuna.

Tutto era made in Lombardia. Isabella d’Este, marchesa di Mantova, anche lei nota appassionata di scacchi, si faceva realizzare i pezzi dai Maestri Campionesi. Inoltre faceva arrivare dalla Spagna i migliori giocatori “professionisti” per giocarci e apprendere meglio il gioco. E lo erano davvero i migliori visto che le regole e i manuali vengono prodotti dalla Spagna grazie ad una matrice culturale di origine araba. Non a caso Isabella si ritrova a Mantova, nello stesso periodo, tra il 1499 e il 1503, sia Luca Pacioli che Leonardo da Vinci.

Questo è il contesto nel quale di muove la brillante mente di Leonardo da Vinci. Arrivano a Milano e sapeva già giocare a scacchi ma senza dubbio apprese nuove pratiche alla corte degli Sforza. Nei Fogli di Windsor (ad esempio il nr. 12692r) datati tra il 1484 e il 1487 è presente proprio un rebus con una innegabile immagine della torre e la cui soluzione è  “io arroccherò”. E ancora la mossa dell’arrocco ad un solo movimento non era stata inventata.

L’arrocco è una mossa che coinvolge il re e una delle due torri.  È l’unica mossa che permette di muovere due pezzi contemporaneamente nonché l’unica in cui il re si muove di due caselle. Leonardo l’aveva già “inventato” prima del Cinquecento quando si usava farla ancora con due. Questa mossa viene fatta nell’apertura e serve spostare il re in una posizione più sicura e allo stesso tempo si porta una torre in una posizione più attiva d’attacco.

Bibliografia: Davide Shenk, Il gioco immortale. Storia degli Scacchi, Mondadori 2008 | https://www.milanosud.it/le-origini-degli-scacchi-in-lombardia-tra-principi-artisti-e-scienziati-del-rinascimento/

Immagine: Miniatura del codice alfonsino, XIII secolo

Corradino e le ultime sfide. Tagliacozzo, gli scacchi e gli angioini

29 ottobre 1268. Piazza del Mercato di Napoli, era un lunedì. Muore sul patibolo Corradino di Svevia, l’ultimo della dinastia sveva che subì la tremenda repressione di Carlo d’Angiò. Due mesi prima, il 23 agosto, il passaggio di consegne era avvenuto sul campo di battaglia di Tagliacozzo. I due schieramenti contrapposti erano i ghibellini sostenitori di Corradino e le truppe angioine di Carlo I d’Angiò, di parte guelfa. L’esercito di Corradino, più numeroso, sembra inizialmente aver la meglio ma a fare la differenza sono stati i rifornimenti di truppe fresche guelfe. I morti furono moltissimi così come i prigionieri contro i quali si accanì la sadica ferocia di Carlo mutilandoli e bruciandoli vivi.

Corradino si mise in salvo, si rifugiò nella vicina Maremma nel castello dell’amico Giovanni Frangipane o almeno così reputava perché fu proprio lui a consegnarlo agli Angioini. Corradino venne processato e condannato a morte per decapitazione. La sentenza viene letta da Giovanni Bricaut cavaliere francese mentre Corradino si trovava nella cella insieme ad un altro detenuto, Federico d’Austria. I due giocavano a scacchi. Sentita la sentenza i due giovani chiesero i regolari tre giorni per potersi preparare ad una morte da buon cristiano.

Venne il giorno. Prima toccò a Corradino, poi a Federico. Entrambe le teste rotolarono come da prassi dopo un sol colpo di mannaia. Ai corpi però non fu concessa la sepoltura in terra consacrata. Avvolti in un lenzuolo furono buttati in una fossa. Solo più tardi le ossa – forse veramente quelle di Corradino? – furono trasferite nella Chiesa dei Carmelitani. Non sapremo mai anche se vinse la sua ultima partita, con quale mossa aprì e chiuse, quanti pezzi prese al suo avversario e in quante mosse. Almeno qui possiamo avanzare l’ipotesi che non abbia perso.

Bibliografia: Giuseppe Quatriglio, Mille anni in Sicilia. Dagli Arabi ai Borboni, Marsilio 1996

Immagine: Miniatura della Cronaca di Giovanni Villani, Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Chigi L VIII 296, fol. 112v

Gli scacchi in casa Anguissola. La Regina, il visir e l’amazon

Il gioco degli scacchi ha appassionato uomini e donne senza distinzione ed esclusione di genere. Nelle regole del gioco infatti è proprio la Regina ad avere più “potere” e più libertà di movimento. Anche se, è bene ricordarlo, prima dell’arrivo in Europa degli scacchi e prima che diventasse la regina, questo pezzo era conosciuto con altri nomi come il generale, lo stratega o il visir. E quindi nulla a che vedere con la donna.

La nobile e pittrice cremonese Sofonisba Anguissola era anch’essa appassionata del gioco e ne fu diretta testimone della sua diffusione tra Cinque e Seicento. Il suo dipinto che riguarda gli scacchi è datato 1555 e vede come protagoniste sole donne. Un particolare che non deve sfuggire. Sul bordo della scacchiera rappresentata viene dipinta la scritta: Sofonisba Angussola vergine figlia di Amilcare dipinse dal vero tre sue sorelle e una servente, 1555. La pittrice aveva vent’anni.

Giorgio Vasari è a Cremona e visita la pittrice Sofonisba. Così scrive: scrisse: Dico di aver veduto quest’anno in Cremona, in casa di suo padre e in un quadro fatto con molta diligenza, ritrarre tre sue sorelle, in atto di giocare a scacchi, e con esse loro una vecchia donna di casa, con tanta diligenza e prontezza, che paiono vive, e che non manchi loro altro che la parola. Per molto tempo il quadro descritto da Vasari rimane nella casa Anguissola poi risulta tra i beni del collezionista Fulvio Orsini.

Il quadro mostra il grande eclettismo delle figlie di casa Anguissola. Il programma educativo era raffinato e complesso: lezioni di pittura al cavalletto e di musica al clavicembalo, testi di poesia, testi in latino e attività di ricamo. L’opera della pittrice si colloca nel contesto molto vicino della pubblicazione – avvenuta cinque anni prima – del poema Scacchia Ludus scritto dal vescovo e poeta cremonese Alba Marco Gerolamo Vida. Il pezzo della regina viene chiamato a volte virgo e a volte amazon e anche lui afferma che si può muovere in ogni direzione.

A cosa allude il soggetto del dipinto? La disputa tra le sorelle Anguissola racconta la ricerca della conquista di un primato femminile negli interessi virtuosi del loro quotidiano esercizio educativo. Chi sta vincendo in questo fermo immagine? Lucia, che sta muovendo, sembra essere in vantaggio rispetto a Minerva che appare invece più sulla difensiva. La partita non è cominciata da poco perché Lucia ha già i suoi pezzi in più zone della scacchiera.

Bibliografia: David Shenk, Il gioco immortale. Storia degli scacchi, Mondadori 2008

Immagine: Sofonisba Anguissola, Portrait of the artist’s sisters playing chess, 1555 Narodowe Muzeum (Poznan)

I corami tra Bologna e Venezia. Quando i maestri avevano i cuoridoro

Nel dipinto su tela attribuito a Ludovico Carracci, cugino dei fratelli Agostino e Annibale Carracci, si vedono due giocatori di scacchi. Non sappiamo molto. La scacchiera è appoggiata su un tavolo dal tessuto estremamente raffinato, i pezzi rimasti sono pochi e la partita sembra essere giunta nelle sue fasi conclusive. Il giocatore di destra sembra attendere la mossa dell’avversari e intanto riflette sulla sua prossima da compiere e fare scacco matto.

La partita in realtà sembra più il pretesto per raccontare l’ambiente dove avviene. Tutto è decorato con i corami. Dal latino corium si tratta di un cuoio lavorato a pannelli con motivi decorativi e utilizzati nell’arredamento. Dal rivestimento dei libri, alle seggiole fino alle pareti dei palazzi. Chiamato anche cuoio cordovan dal suo più prestigioso luogo di produzione ovvero la Spagna musulmana, il corame veniva lavorato a fondo dorato o argentato e dipinto a vivaci colori trasparenti con martellatura a cesello. Quelli veneziani prendevano il nome di cuoridoro.

Così anche Bologna diventa un fondamentale centro di produzione soprattutto su commissione degli Estensi. Venivano eseguiti per lo più apparati da camera ovvero lotti di corami d’oro o pelli di diverso colore spesso con fregi e decorazioni a candelabre. Come è il caso del dipinto di Carracci.

In Italia i maggiori centri di produzione, oltre a Venezia e Bologna, furono Napoli, Roma, Ferrara e Modena. Nelle corti del Rinascimento furono usati come sostituti più economici degli arazzi e soprattutto come paramenti da tappezzeria da esporre in occasione di ricevimenti e nell’accoglienza di personaggi importanti. A Venezia il giro d’affari si aggirava sui circa 100.000 ducati e coinvolgeva 70 botteghe. Nel 1569 i maestri cuoridori fecero il salto di livello e furono ammessi alla corporazione della Scuola dei Pittori.

Bibliografia: David Shenk, Il gioco immortale. Storia degli scacchi, Mondadori 2008

Immagine: Ludovico Carracci, Giocatori di scacchi, 1590

Gli scacchi di Giulio Campi. Venere, un po’ di Medioevo e il gambetto

Non è questo il contesto per descrivere la lunga storia degli scacchi. E’ il caso di segnalare invece quante volte venga utilizzata l’immagine della scacchiera o di una partita in corso dal Medioevo fino ad oggi. L’arte lombarda e veneta ci offrono tantissimi esempi. Ci fermiamo ad analizzare il dipinto datato 1530 e realizzato dal pittore cremonese Giulio Campi.

Si notano molti personaggi maschili e femminili, ben vestiti, che stanno osservando con varie dinamiche una partita tra un uomo in armatura e una matrona dalla veste sontuosa e ornata di gioielli. Quella che in apparenza è una partita di scacchi in realtà è la rappresentazione di un rituale amoroso. Il gioco – di cui tra l’altro ignoriamo le mosse realizzate – diventa il pretesto. La scacchiera è visibile solo a metà e si trasforma nell’allusione di una tenzone amorosa. L’uomo che è cavaliere e deve dare l’assalto al cuore arroccato della dama difesa dalle sue complici compagne. Venere e Marte si sfidano. La rosa è appoggiata sul tavolo. Sappiamo benissimo che nel duello Venere vince su Marte. Nel contorno della scena tutte le “mosse” e le schermaglie che avvengono durante il duello tra chi attacca e chi difende, tra chi è cavaliere e chi è dama. Certamente il linguaggio dell’opera si muove su stereotipi e riprende ancora tenacemente la simbologia e i valori del mondo medievale.

Venere comunque vince su Marte, e questo lo sappiamo, ed era l’unico finale possibile. Mentre non sappiamo con quale mossa avrà aperto la dama. Chissà, magari proprio quella del gambetto caratterizzata dal sacrificio di uno o più pedoni già durante nella prima fase della partita. Il termine è italiano e nasce proprio nello stesso periodo del dipinto di Giulio Campi. Fu proprio nel Cinquecento in cui per la prima volta vengono teorizzate le aperture nel gioco degli scacchi. Gambetto significa “sgambetto” ovvero “trappola” e “agguato”. Il vocabolo è poi passato in moltissime delle lingue europee.

Il gambetto di donna è una delle più antiche aperture ad oggi conosciute. Luis Ramirez de Lucena, scacchista spagnolo, lo descrive in un documento del 1497. Non era un’apertura “di moda” nel Rinascimento. Diventa tale nel 1873 quando fu utilizzata in un torneo giocato a Vienna. Per chi volesse provare l’apertura queste sono le mosse: 1.d4 d5 – 2.c4

Bibliografia: fonte wikipedia per Gambetto di donna | David Schenk, Il gioco immortale. Storia degli scacchi, Mondadori 2008

Immagine: Partita a scacchi, Giulio Campi 1530 (olio su tavola, Museo civico di arte antica, Torino)

San Silvestro e la più incredibile partita di scacchi. La chiesa, la statua, il Rio

Tutti pronti a festeggiare la notte di San Silvestro mentre la figura del Santo vicino al Rio rimane a vivere la sua vita di statua traslocata, privata della sua chiesa. Ambulante di silenzi. Occorre una piccola storia che metta ordine alle sue vicende. Eccola.
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