I ricordi di Cromwell sul calcio fiorentino. Sangue, occhi cavati e coltelli

Partiamo da un dato di fatto. L’inizio del gioco del calcio simile a quello attuale ha un’origine cinese e greca per poi diffondersi in tutto l’impero romano grazie ai legionari. In antichità veniva chiamato harpastum e praticato con un pallone ricavato dagli stracci o dalla pelle di animali.

In Inghilterra se ne ha traccia fin dal 1314. Nello stesso periodo Dante non ne parla nella Divina Commedia. Le prime fonti lo attestano in Italia alla fine del Quattrocento e veniva praticato con gran frequenza dai giovani fiorentini. Per garantire l’ordine pubblico l’attività venne organizzata e giocata solo nelle piazze principali e limitata nel tempo, soprattutto per Carnevale. Molto famosa fu la partita giocata nel 1530 quando i fiorentini rievocarono l’assedio di Carlo V e nell’occasione, per dare un messaggio di noncuranza, giocarono a calcio in piazza Santa Croce. Per tutto il Seicento si praticò poi nella piazza di Porta al prato.

Lo sport del tempo ricordava di più il rugby. Due squadre con diverse livree, un pallone da passarsi con le mani e una linea da attraversare per fare punto. Lo ricorda anche Lord Cromwell quando trascorse una parte della sua vita a Firenze: “è un gioco che si fa in molti, più una mischia che uno svago. I giovani della famiglia schierano i servitori più tarchiati, venti o trenta per ogni squadra”. Doveva essere un gioco molto violento e cruento perché a pochi minuti dall’inizio “eri già insanguinato, la palla cosparsa di muco, sabbia e sangue, il fiato corto, le ossa delle gambe tremanti, i piedi in poltiglia e i capelli strappati a piene mani”. Alla fine il campo assomigliava all’epilogo di una guerra: “un campo cosparso di denti, di occhi cavati dalle orbite”. E capitava pure che qualche giocatore “cadesse” sul coltello di un altro, inavvertitamente, per sbaglio. Capitava anche questo.

Una di queste partite le avrà viste anche Jacopo Pontormo che ha fermato le pose saettanti e sguscianti dei giocatori con delle contorsioni degne di Michelangelo.

Bibliografia: Hilary Mantel, Lo specchio e la luce, Fazi Editore 2020 | Andrea Claudio Galluzzo, The Origins of Football, Firenze, Museo Viola 2012

Immagine: Jacopo Pontormo, Giocatore di calcio, anni 30 del Cinquecento

Milano capitale degli scacchi. Leonardo, il rebus e l’arrocco

Il contesto lombardo e milanese nel Quattrocento vede la presenza di giocatori di scacchi unita ad una forte passione che gli Sforza hanno ereditato dai Visconti. Tanto che si può parlare di una vera e propria scuola lombarda. Questa passione coinvolgeva direttamente anche il suo committente Ludovico il Moro.

Questo è il contesto nel quale di muove la brillante mente di Leonardo da Vinci. Arrivato a Milano e sapeva già giocare a scacchi ma senza dubbio apprese nuove pratiche alla corte degli Sforza. Nei Fogli di Windsor (ad esempio il nr. 12692r) datati tra il 1484 e il 1487 è presente proprio un rebus con una innegabile immagine della torre e la cui soluzione è  “io arroccherò”. E ancora la mossa dell’arrocco ad un solo movimento non era stata inventata.

L’arrocco è una mossa che coinvolge il re e una delle due torri.  È l’unica mossa che permette di muovere due pezzi contemporaneamente nonché l’unica in cui il re si muove di due caselle. Leonardo l’aveva già “inventato” prima del Cinquecento quando si usava farla ancora con due. Questa mossa viene fatta nell’apertura e serve spostare il re in una posizione più sicura e allo stesso tempo si porta una torre in una posizione più attiva d’attacco.

Bibliografia: Davide Shenk, Il gioco immortale. Storia degli Scacchi, Mondadori 2008 | https://www.milanosud.it/le-origini-degli-scacchi-in-lombardia-tra-principi-artisti-e-scienziati-del-rinascimento/

Immagine: Ritratto di Luca Pacioli, attribuito a Jacopo de’ Barbari (Museo Nazionale Capodimonte, Napoli)

La scuola lombarda degli scacchi. Isabella d’Este gioca contro gli spagnoli

Forse possiamo dire che in origine il gioco degli scacchi fu lombardo. Le prime notizie relative a quest’area risalgono al 1300 e confermano la presenza di una propria “scuola lombarda”: giocatori bravi e regole rigide che facevano scuola in tutto il continente. I primi appassionati giocatori erano i membri della famiglia Visconti, soprattutto Valentina, la figlia di Gian Galeazzo che in dote nel matrimonio con Ludovico di Francia portò, tra le altre cose, “una preziosa scacchiera con pezzi e pedine”. Dai documenti si sa che il più noto e tenace scacchista fu Filippo Maria. I libri di testo che studiava li conservava presso il Castello di Pavia. Milano dunque faceva scuola e da qui si formavano i più bravi scacchisti italiani. Dai Visconti agli Sforza la passione non si acuisce. Accaniti giocatori furono Francesco Sforza, il figlio Galeazzo Maria e un giovane Lodovico il Moro che mantenne la passione anche negli anni di governo se in una supplica rivolta al duca di legge che “Jacopo de Conti clarico milanese filio quandom da Maystro Ambrosio che zugava a scacchi a mente”.

Giocare a scacchi era diventata ancora una professione redditizia. Sul finire del Quattrocento c’è un certo Zoane Lombardo che girava di città in città cercando personaggi abbastanza ricchi – se non addirittura i signori della Corte – per sfidarli e fare fortuna.

Tutto era made in Lombardia. Isabella d’Este, marchesa di Mantova, anche lei nota appassionata di scacchi, si faceva realizzare i pezzi dai Maestri Campionesi. Inoltre faceva arrivare dalla Spagna i migliori giocatori “professionisti” per giocarci e apprendere meglio il gioco. E lo erano davvero i migliori visto che le regole e i manuali vengono prodotti dalla Spagna grazie ad una matrice culturale di origine araba. Non a caso Isabella si ritrova a Mantova, nello stesso periodo, tra il 1499 e il 1503, sia Luca Pacioli che Leonardo da Vinci.

Questo è il contesto nel quale di muove la brillante mente di Leonardo da Vinci. Arrivano a Milano e sapeva già giocare a scacchi ma senza dubbio apprese nuove pratiche alla corte degli Sforza. Nei Fogli di Windsor (ad esempio il nr. 12692r) datati tra il 1484 e il 1487 è presente proprio un rebus con una innegabile immagine della torre e la cui soluzione è  “io arroccherò”. E ancora la mossa dell’arrocco ad un solo movimento non era stata inventata.

L’arrocco è una mossa che coinvolge il re e una delle due torri.  È l’unica mossa che permette di muovere due pezzi contemporaneamente nonché l’unica in cui il re si muove di due caselle. Leonardo l’aveva già “inventato” prima del Cinquecento quando si usava farla ancora con due. Questa mossa viene fatta nell’apertura e serve spostare il re in una posizione più sicura e allo stesso tempo si porta una torre in una posizione più attiva d’attacco.

Bibliografia: Davide Shenk, Il gioco immortale. Storia degli Scacchi, Mondadori 2008 | https://www.milanosud.it/le-origini-degli-scacchi-in-lombardia-tra-principi-artisti-e-scienziati-del-rinascimento/

Immagine: Miniatura del codice alfonsino, XIII secolo

Gli scacchi di Giulio Campi. Venere, un po’ di Medioevo e il gambetto

Non è questo il contesto per descrivere la lunga storia degli scacchi. E’ il caso di segnalare invece quante volte venga utilizzata l’immagine della scacchiera o di una partita in corso dal Medioevo fino ad oggi. L’arte lombarda e veneta ci offrono tantissimi esempi. Ci fermiamo ad analizzare il dipinto datato 1530 e realizzato dal pittore cremonese Giulio Campi.

Si notano molti personaggi maschili e femminili, ben vestiti, che stanno osservando con varie dinamiche una partita tra un uomo in armatura e una matrona dalla veste sontuosa e ornata di gioielli. Quella che in apparenza è una partita di scacchi in realtà è la rappresentazione di un rituale amoroso. Il gioco – di cui tra l’altro ignoriamo le mosse realizzate – diventa il pretesto. La scacchiera è visibile solo a metà e si trasforma nell’allusione di una tenzone amorosa. L’uomo che è cavaliere e deve dare l’assalto al cuore arroccato della dama difesa dalle sue complici compagne. Venere e Marte si sfidano. La rosa è appoggiata sul tavolo. Sappiamo benissimo che nel duello Venere vince su Marte. Nel contorno della scena tutte le “mosse” e le schermaglie che avvengono durante il duello tra chi attacca e chi difende, tra chi è cavaliere e chi è dama. Certamente il linguaggio dell’opera si muove su stereotipi e riprende ancora tenacemente la simbologia e i valori del mondo medievale.

Venere comunque vince su Marte, e questo lo sappiamo, ed era l’unico finale possibile. Mentre non sappiamo con quale mossa avrà aperto la dama. Chissà, magari proprio quella del gambetto caratterizzata dal sacrificio di uno o più pedoni già durante nella prima fase della partita. Il termine è italiano e nasce proprio nello stesso periodo del dipinto di Giulio Campi. Fu proprio nel Cinquecento in cui per la prima volta vengono teorizzate le aperture nel gioco degli scacchi. Gambetto significa “sgambetto” ovvero “trappola” e “agguato”. Il vocabolo è poi passato in moltissime delle lingue europee.

Il gambetto di donna è una delle più antiche aperture ad oggi conosciute. Luis Ramirez de Lucena, scacchista spagnolo, lo descrive in un documento del 1497. Non era un’apertura “di moda” nel Rinascimento. Diventa tale nel 1873 quando fu utilizzata in un torneo giocato a Vienna. Per chi volesse provare l’apertura queste sono le mosse: 1.d4 d5 – 2.c4

Bibliografia: fonte wikipedia per Gambetto di donna | David Schenk, Il gioco immortale. Storia degli scacchi, Mondadori 2008

Immagine: Partita a scacchi, Giulio Campi 1530 (olio su tavola, Museo civico di arte antica, Torino)