La Roma di Artemisia. Una mappa sentimentale

Roma, 8 luglio 1593. Via di Ripetta, accanto all’Ospedale di San Giacomo. Proprio qui nasce Artemisia Gentileschi, la primogenita di sei figli. Dopo due giorni viene battezzata nella chiesa di San Lorenzo in Lucina. Possiamo tracciare una piccola e agile mappa di Roma mettendo insieme i luoghi e le date della vita di Artemisia.

DOMICILIO. La casa dei Gentileschi non è sempre rimasta la stessa. La famiglia si sposta parecchio. Da via di Ripetta si sposta in Piazza Santa Trinità dal 1697 al 1601. Nel dicembre dello stesso anno si spostano ancora, anche se di poco, e hanno un nuovo domicilio in via Paolina (oggi via del Babuino) all’angolo con via dei Greci. Qui rimangono fino all’aprile 1610 per poi cambiare a dicembre in via Margutta e cambiare di nuovo il 10 aprile.

LO STUPRO. Avvenne nel nuovo domicilio dei Gentileschi in via della Croce dove rimasero fino al 16 luglio 1611. Il pittore Agostino Tassi detto “lo smargiasso” stava insegnando ad Artemisia la prospettiva sotto la tutela del padre. Tassi, dopo diversi approcci tutti rifiutati, approfittò dell’assenza di Orazio, e violentò Artemisia. Furono coinvolti anche Cosimo Quorli, furiere della camera apostolica, e una certa Tuzia, vicina di casa che era solita accudire la ragazza quando il padre era fuori casa.

DAL PROCESSO AL MATRIMONIO. Il 1 maggio 1612 Artemisia fa visita ad Agostino Tassi presso la Prigione di Corte Savella. Il 14 maggio nella Prigione di Tor di Nona Artemisia è torturata in presenza di Agostino. Il 29 novembre dello stesso anno, il giorno successivo all’epilogo del processo, nella Chiesa di Santo Spirito in Sassia Artemisia si sposa con Pierantonio Stiattesi, un pittore che “ha la fama d’uno che vive d’espedienti più che del suo lavoro d’artista”.  Le nozze furono organizzate dal padre Orazio per riparare, rispetto alla dell’epoca, uno status di onorabilità per la figlia e per il nome della famiglia.

ARRIVEDERCI ROMA. Il 10 dicembre 1612, appena undici giorni dopo il matrimonio, Artemisia seguì immediatamente il marito a Firenze. Qui, nella città di Cosimo II e di Galilei, in un clima di pieno fermento culturale, troverà per i suoi prossimi sette anni una piena affermazione come pittrice.

Bibliografia: Alexandra Lapierre, Artemisia, Oscar Mondadori 1999

Immagine: Piranesi, veduta del Porto di Ripetta con s. Girolamo (metà XVIII sec.)

Cronaca del 22 aprile 1600. La strega Franchetta, il rogo e le dodici mila persone in piazza

Mantova, 19 marzo 1600. Questa la data del verbale con le accuse mosse contro Judith Franchetta e stilato dal notaio Cassiano Ratti. Giudicata come strega, eretica, ebrea e punibile con il rogo. Nello stesso si nomina la commissione che si occuperà del processo. Ci offre uno spaccato dalla giustizia del tempo a Mantova. Alessandro Donesmondi, presidente del Senato Ducale; Carlo Bardeloni, avvocato; Ascanio Rasi Capitano di Giustizia. La tortura a cui viene sottoposta Judith dà gli esiti sperati per la commissione ovvero la confessione. Josef Finzio e Jacob da Fano, suoi aiutanti, vengono scagionati dalla stessa Judith. La corte dei signori è in affaccio per vedere lo “spettacolo”. In piazza San Pietro ci sono oltre 12.000 persone. Lo svolgersi dell’esecuzione viene debitamente raccontato nella “Cronaca Mantovana dal 1561 al 1602” di Giovanni Battista Vigilio intitolata “la Insalata” nel capitolo 115.

Per quanto ho inteso, alli 22 d’aprille 1600, in sabato la mattina, circa l’hore 15 1/2, su la piazza del Domo di Mantova fu abbruciata viva la Iovadith Franchetta, hebrea d’anni 77 incirca, per esser stata striga over per haver magliato molte et diverse persone in vitta sua et specialmente una monacha dell’ordine della chiesa di san Vincenzo in Mantova, la quale di già era hebrea et poi fatta christiana entrata nella detta religione. Fatta la professione se ritrovò inspiritata et per gratia di nostro signor Ihesu Christo poi liberata. Al qual spettacolo vi furno presenti il detto serenissimo signor nostro, madama Elleonora sua moglie, la serenissima Margarita duchessa di Ferrara et la serenissima arciduchessa d’Austria Anna Catherina, sue sorelle, venuta d’Ispruch come di sopra, et tutti gli figliuoli, accomodati sopra li poggi et finestre del pallazzo di Corte Vecchia, et tanta quantità et moltitudine de persone che tutta la detta piazza era talmente piena che non vi si poteva volgere, onde fu giudicato non vi esser manco de dieci et anco dodeci milla persone. La qual Iovadith hebrea, legata con molte funi in piedi ad una collona di legno, sopra una gran quantità de legne, alle quali doppo l’essergli datto il fuogo di trei hebrei che la confortavano, duoi se ne fugir[no] et il terzo, qual era vecchio et tanto intento al suo officio, f[u] / quasi per restar con essa lei nelle fiamme (sì come saria), quando dalli altri duoi non fosse stato tirrato al basso, nel qual mentre si abbruciò la fune con la quale haveva legato le mani, et con la man destra si faceva diffesa dal fogo alla faccia, soffiando anco con la bocca, ma poco gli valse perché incontinenti se ne caddi nelle fiamme et così finì la sua vitta.

Bibliografia: Giovanni Battista Vigilio, La Insalata. Cronaca mantovana dal 1561 al 1602, a cura di Daniela Ferrari e Cesare Mozzarelli, Arcari Editore 1992

Immagine: Fredegonda fa giustiziare Ennio Mummolo e alcune donne accusandole di stregoneria per aver avvelenato il figlio Teodorico – miniatura dalle “Chroniques de France ou de Saint-Denis”, 1332-1350

Guglielmo da Canneto, il medico personale di Bonifacio VIII

Roma, 11 ottobre 1303. Muore Bonifacio VIII, il Papa di Anagni e del primo Giubileo. Sicuramente, a fianco, avrà avuto lui, Guglielmo da Canneto. Nei documenti è conosciuto anche come Gugliemo Corvi o da Brescia. Era figlio del nobile bresciano Jacopo Corvi ma nato a Canneto sull’Oglio. Venne inviato dal padre a Brescia per studiare lettere e filosofia. Una volta giunto a Padova si dedicò invece alla medicina. Poi si spostò a Bologna dove si laurea nel 1286. Due anni dopo giunge a Roma diventando il medico personale dei papi.

Negli stessi Statuti dei Bonacolsi troviamo che i maestri di grammatica e i medici che professavano in città erano in numero considerevole e tra loro vengono nominati anche i magistri phisici. Guglielmo, anche se non direttamente, vive il passaggio nella Mantova dei Bonacolsi che porterà la città ad essere un luogo di interesse per i dibattiti scientifici e la ricerca. Guglielmo fu il medico anche di altri due papi ovvero Clemente V e Giovanni XXII. Prese i voti, diventa canonico di Parigi e nel 1313 arcidiacono della Cattedrale di Bologna. Qui fonda un collegio universitario. Dei suoi studi rimangono un trattato sulle febbri e un altro sulla peste.

Già da marzo si stava preparando il processo contro Bonifacio VIII, i capi d’accusa erano ventotto. Il mandante era Filippo il Bello che voleva screditarlo e farlo abdicare anche se questa doveva essere decretata da un concilio. La preparazione del processo continuò anche dopo la morte di Bonifacio perché Filippo si era accorto di avere tra le mani una potete arma contro il papato. Il processo si svolse tra il 1310 e il 1313. Bonifacio, dopo dieci anni dalla sua morte, non venne condannato e, per questo compromesso, venne dato al re francese un importante tributo in termini di concessioni. Furono annullate tutte le sentenze di Bonifacio contro Filippo, contro la Francia e contro i Colonna.

Guglielmo muore a Parigi nel 1326 quando al governo a Mantova c’è Rinaldo Bonacolsi. Non fa in tempo a vedere la strage del 16 agosto 1328, la battaglia e la cacciata dei Bonacolsi.

 

Immagine: Bonifacio VIII indice il giubileo del 1300, affresco attribuito a Giotto (San Giovanni in Laterano, Roma 1300)

Bibliografia: La grande storia dei papi. Santi, peccatori, vicari di Cristo, Mondadori 2017 | Luigi Pescasio, Bonacolsi. 50 anni spesi bene, Edizioni Bottazzi, Suzzara 1998

Un caso di stregoneria a Cavriana. Condanne e superstizioni mentre tutti ammiravano la Camera Picta

28 dicembre 1504, Cavriana. Ludovico Mantegna, figlio del celebre Andrea, oltre ad essere pittore ricopre il ruolo di commissario marchionale. A questa data scrive al marchese Francesco II Gonzaga una lettera che rispecchia bene il credo e la cultura del tempo. Dice che nel giorno di Santo Stefano è arrivato a Cavriana il padre vicario dell’inquisitore e ha tenuto una solenne predica “contra heritocos et incantatori, et contra a quelli che sanno et non rivelano simile cose”. Poi si passa a parlare di due strie ovvero di streghe. “Una confessa essere circa vintiquattro anni che ella va al corso cavalcando una gallina over un diavolo in forma di essa […] l’altra non vole cantare, perché io non ho instrumento congruo ne apto ad ciò”. Appare evidente che il “canto” si riferisce alla confessione e in particolare a quella sotto tortura che però Ludovico dice di non avere i giusti strumenti.

Ludovico, figlio di Andrea Mantegna, proviene comunque dall’ambiente culturale del padre fatto di testi eruditi, grecità e latinismi eppure qui è rappresentato nelle vesti di un funzionario integerrimo e incredulo che dice “io ho fatto il debito mio come fidel cristiano et ubidiente sempre, purre mi sia comandato”. Quasi da non credere come lo stesso periodo storico abbia prodotto la Camera degli Sposi, il Cristo Morto, i Trionfi di Cesare e dei processi basati sulla superstizione. Ma la storia non deve essere giudicata quanto piuttosto analizzata per capire come pensavano ad esempio le persone alla fine del Quattrocento nel mondo di splendore artistico. Il processo è accusatorio e finalizzato all’epurazione delle eresie. Non si arrivava al rogo come ultima soluzione e spesso la si voleva evitare. Le condanne al rogo non venivano inflitte direttamente dalla Chiesa ma dall’autorità civile. Difficile stabilire il numero di vittime ma in Europa varia tra le 35.000 e le 100.000.

Molto spesso una condanna era la somma di una forte dose di superstizione, stupidità e ignoranza. Soprattutto superstizione. Così si spiega la condanna a una strega mantovana rea di vari delitti e di aver permesso con le sue arti magiche l’esondazione del Po nei pressi di Revere. Così la donna originaria di Ostiglia, definita “strega di professione”, fu scoperta, processata e convinta; laonde fu condotta sopra d’una catasta di legna in piazza [San Pietro] e vi fu abbrugiata viva. A lei si attribuiva “la spaventevole rotta del fiume Po, li otto ottobre dello scorso anno [1492] a Peraruolo […] per le quali andò allagato tutto il paese, con diroccamento di case, morte d’uomini di animali, e la città medesima restò in gran parte inondata e diroccarono alcune mura di recinto, aggiungendovisi lo scoppio di lampi e fulmini che atterrivano”.

Bibliografia: Giancarlo Malacarne, Le feste del principe, Il Bulino edizioni d’arte, 2002

Immagine: Verbale del processo di una strega poi arsa sul rogo 1533 – Zentralbibliothek, Graphische Sammlung( Zurigo)

Isabella Gonzaga di Novellara. L’accusa di stregoneria, il processo e la crisi famigliare

1616, anno bizzarro per Mantova.  Avviene il matrimonio segreto tra Ferdinando – appena eletto duca – e Camilla Faà, muore Ferrante III il conte di Bozzolo e si sposa Vincenzo II fratello di Ferdinando. Gli ultimi due fatti sono collegati a Isabella Gonzaga di Novellara, vedova di Ferrante e sposa di Vincenzo. Lei neppure ci credeva. A 40 anni si era avvicinata al potere dei Gonzaga, non più rami cadetti ma quello principale. Per uno anno, dal 1626 al 1627 diventerà anche duchessa. Isabella porta in dote a Vincenzo un carico di 13 figli mentre la coppia non riuscirà a perpetuare la linea di sangue aprendo ufficialmente la crisi famigliare risolta poi con l’inserimento dei Nevers.

Vincenzo e Isabella erano cugini, lui era più giovani di vent’anni, un dato che ribalta la quasi normalità delle coppie in cui era la donna ad essere giovanissima. Isabella si ritrova però improvvisamente a difendersi da tutti. Vincenzo dapprima convinto dell’amore verso Isabella, poi influenzato dal fratello Ferdinando che ne ha osteggiato le nozze, cambia idea. I funzionari di corte gli suggeriscono di accusare Isabella di stregoneria: il processo si sarebbe risolto con la pena di morte, Vincenzo II diventava vedovo e pronto per un altro matrimonio. Il punto di vista dei Gonzaga era cinico: Ferdinando, che nel frattempo si è risposato con Caterina de Medici, non ha figli maschi e si teme per il futuro della famiglia a questo punto tutto legato alle sorti di Vincenzo.

Il processo si svolse a Roma e fu preparato in tempi brevissimi e sostenuto da un’accusa tanto feroce quanto falsa in quanto sostenuta da prove e testimonianze false. L’accusa – o meglio il rito inquisitorio – confermava la macchinazione di Isabella e di aver sedotto Vincenzo per mezzo di un certo sugolo ovvero di un filtro magico ottenuto mescolando “ostia consecrata et d’osso di testa di morto”. Isabella si sa difendere, raccoglie prove e testimonianze a suo favore come quella di Bianca Montagnana, sua domestica personale e segregata in prigione per una settimana. Le sue dichiarazioni scagionarono Isabella che nel gennaio 1624 fu dichiarata innocente. Vincenzo, sconfitto, venne condannato a pagarle un cospicuo indennizzo. Questa fu l’anticamera della crisi dei Gonzaga. Non fulminea, non capitata, non casuale. La fortuna era arrivata a fine corsa.

 

Bibligrafia: Riccardo Braglia, I Gonzaga, Rossi Edizioni 2002

Immagine: Ritratto di Isabella Gonzaga di Novellara

Cronaca di una morte annunciata. Il processo di Agnese Visconti e Antonio da Scandiano

La storia di Agnese Visconti parla di punizione, di politica maschile, di matrimoni giovanissimi e di una giustizia regolamentata ma poi da modificare a seconda delle esigenze. Agnese e il suo amante Antonio da Scandiano vengono arrestati il 27 gennaio 1391. Francesco I Gonzaga ritiene che l’adulterio della moglie è un crimine nei confronti del suo status. Oltre alla relazione reale che Agnese aveva con Antonio c’è da aggiungere la morte del padre Bernabò Visconti ad opera di Gian Galeazzo con il quale si schiera Francesco. Dalla legislazione comunale per gli accusati di adulterio non era prevista la pena di morte ma una una pena pecuniaria di 100 soldi per l’uomo e nessuna sanzione per la donna. Tra il 4 e 7 febbraio del 1391 si svolge il processo all’interno di una sala del palazzo – sala dei Cimieri – e non nel Tribunale. I giudici sono due: Obizzo dei Garsedini, una delle più note famiglie bolognesi, e Giovanni della Capra, un cittadino di Cremona con licenza in diritto civile. A questi si aggiunge il notaio Bartolomeo de Bomatiis, cittadino mantovano. I testimoni sono sette, tre uomini e una donna. Antonio da Scandiano l’amante, Iacopo Chayno il cameriere del signore, Pietro da Bologna che scopre l’amante, Sidonia di Pavarolo e Beatrixia le domicelle, Domina Brigida e Donna Isabeta la governante della figlia di Agnese. Il processo è di tipo inquisitorio e le prove sono schiaccianti soprattutto grazie al contributo delle due domicelle che rivelano una serie di intimi particolari. La fine del processo si risolve in breve: si legge agli amanti l’atto d’accusa, si chiede loro se riconoscono per vero quanto esposto – cosa che fanno – e i giudici danno un termine di 24 ore per preparare una propria difesa. Cosa impraticabile. La sera dell’8 febbraio scade il termine. La sera stessa o il mattino dopo, molto presto, Agnese e Antonio vengono condannati a morte. Lei per decapitazione e lui per impiccagione all’interno del brolo di Corte Vecchia. Giovanni Cavallo è il carnefice assegnato da giudici. La dote di Agnese e i beni di Antonio vanno al Comune di Mantova. Non ci sono testimoni, probabilmente non c’è Francesco. Il processo termina così.

Bibliografia: Elisabeth Crouzet-Pavan, Jean-Claude Maire Viguer, Decapitate. Tre donne nell’Italia del Rinascimento, Einaudi 2019

Immagine: Bernabò Visconti e Beatrice della Scala, genitori di Agnese (Cappellone degli Spagnoli, Chiesa di Santa Maria Novella Firenze, 1365-1367)

Un maiale finito sotto processo

Qui l’ironia si mescola al grottesco e al gotico. I maiali erano dei veri spazzini della città. Si poteva vederli liberi di circolare, vagabondi raccoglitori di tutto. Nel Medioevo, oltre ai processi e alla pena di morte date alle persone, venivano coinvolti anche gli animali. E’ il caso della cosiddetta scrofa di Falaise, un paesino della Normandia. Fu processata perché colpevole di aver ucciso un bambino. Prima il tribunale dove venne giudicata e condannata a morte. Poi, da rito, venne vestita in abiti da uomo, messa alla berlina e trascinata per le strade del paese fino al sobborgo di Guibray dove l’attendeva il patibolo. Il boia fece quello che doveva fare e poi l’appese alla forca di legno. Dalle cronache del tempo sappiamo anche la sua parcella: venti soldi e dieci tornesi.

Furono circa una sessantina i casi simili in Francia tra XIII e XVI secolo. E i giudici se la prendevano anche con altri animali come bruchi e lumache. Le cavallette della regione di Villenauxe invece vengono esortate dal giudice a lasciare la sua diocesi nel giro di sei giorni previa scomunica. Alcune di queste cronache persistono fino al XVIII secolo.

L’uomo e l’animale di fronte alla legge erano uguali e non c’erano discriminazioni. E per il boia, a dire il vero, cambiava poco. Questa è una delle tante curiosità che sentirete nell’itinerario che sto preparando per Halloween nel centro storico di Mantova.

Per info e prenotazioni: 3382168653 – valorizzazione.mantova@gmail.com

Bibliografia: Michel Pastoureau, Medioevo simblico, Editore Laterza, 2018.