Il corpo del principe e la bara “tutta coverta a seta”. La strategia del colore e dello sfarzo

Peccana, 23 luglio 1329. In tarda serata il corpo di Cangrande della Scala arriva in una località poco fuori Verona, vicino a Porta Vescovo. Ormai da un giorno la famiglia sapeva della morte perché avvertita da un emissario che a tutta velocità era partito da Treviso. Le disposizioni per le esequie erano molto precise: il principe sarebbe entrato in città il giorno 24 e accompagnato da un funerale triste ma grandioso, un grande corteo fino alla sepoltura (la prima) in Santa Maria Antica.

Presso la località Peccana c’era un ospedale in servizio alla chiesa di Sant’Apollinare. Qui viene preparato il corpo di Cangrande logorato da anni di battaglie e ferite e dal trasporto lungo oltre dieci ore nella calura di luglio. La salma infatti non arriva in buone condizioni: il ventre è già gonfio, gli arti superiori sono rigidi e si manifestano i primi segni della putrefazione. I medici della corte sono al lavoro per sistemare e aromatizzare il corpo.

Cangrande, dal busto alle cosce, è stato avvolto in una stretta e spessa fasciatura di bende di lino – almeno 5 strati – e imbevuta di unguenti. La fronte e la parte posteriore del capo sono protette da una garzatura più delicata. Le braccia furono lasciate libere, messe conserte con le mani a stringere i gomiti. La muscolatura era già rigida e non si poteva deporle lungo i fianchi come in genere avviene. In realtà non siamo certi che questa procedura sia avvenuta proprio a Verona o piuttosto già a Treviso proprio per permettere al corpo di viaggiare sicuro e protetto in buone condizioni. Nella bara Cangrande ci stava a fatica: le spalle sono strette verso l’alto quasi in modo innaturale, quasi ce lo avessero infilato con forza, di velocità, proprio nelle fasi concitate della preparazione per il trasporto.

Ciò che è certo è il lavoro dei sarti alla Peccana. Confezionano per il principe una veste di tessuto rosso su cui risaltava l’oro usato per gli ornati e in contrasto con la cromia delle altre sete. La parte anteriore del corpo, compreso il volto, era avvolta da un lungo lenzuolo giallo e oro scuro, a righe d’argento. Così doveva apparire la sua tomba tutta coverta a seta; una simbologia parlante del potere: il giallo e blu del Comune e il rosso e argento degli Scaligeri. Gli indumenti a fare da arredo non erano finiti qui: tre teli quadrangolari (sparsi nella cassa), un copricapo di seta, dei calzali in panno rosso, un cuscino a righe d’argento riempito con lana e piume. Una strategia simbolica, del colore e della sfarzosità delle vesti.

Bibliografia: Cangrande della Scala. La morte e il corredo di un principe nel medioevo europeo, Marsilio 2004

Immagine: Statua di Cangrande della Scala, Museo di Castelvecchio

Lazzaretto anno 1423. Gli esempi precedenti di Ragusa e Reggio Emilia

Venezia, maggio 1423. Sotto il dogado di Francesco Foscari la peste torna a visitare la Serenissima con un picco di 40 decessi al giorno. Ormai quasi ogni anno la città deve affrontare questa emergenza. Il 28 agosto il Senato affronta la situazione. Predispone la raccolta metodica delle informazioni sui paesi contagiati impedendo così l’ingresso in città ai passeggeri infetti. Per chi li ospita ci sarà la pesa di sei mesi di carcere duro e cento lire di multa. Se all’esterno vengono chiuse le frontiere sul fronte interno viene istituito un ospedale di almeno 20 camere costruito in una zona periferica ovvero a San Nicolò del Lido. Per la realizzazione vengono stanziati dai mille ai due mila ducati.

L’ospedale di isolamento viene diretto da un priore ed è destinato ad accogliere i malati di peste solo per gli abitanti di Venezia, Mazzorbo, Torcello e Malamocco. Si fa riferimento ad analoghe misure adottate da altri stati come ad esempio Reggio Emilia quando nel 1374 Bernabò Visconti aveva ordinato che quanti provenissero da luoghi sospetti entrassero in città solo dopo aver trascorso dieci giorni fuori dalle mura. Oppure a Ragusa che nel 1377 aveva stabilito in trenta giorni di quarantena nell’isola di Mrkan o a Cavtat per quelli che giungevano da luoghi infetti. Così anche le navi veneziane hanno dovuto rispettare questa misura preventiva negando l’accesso al porto.

Il personale dell’ospedale era composto dal priore, uno o due medici e da tre aiutanti donne, tutti dipendenti, pagati e addetti all’assistenza. La spesa per la costruzione viene attribuita all’Ufficio del Sal. La scelta del luogo cade sull’isola di Santa Maria di Nazareth che dal 1249 era la sede del convento degli Eremitani. Il volgarizzamento del termine “nazareth” in nazaretum e poi lazzaretto fu assai breve.

Bibliografia: Nelli-Elena Vanzan Marchini, Venezia la salute e la fede, Dario De Bastiani editore 2011

Immagine: Francesco Guardi (1712-93), “L’isola del Lazzaretto Vecchio”

Quando a Mantova successe un mapèl. Ludovico II, la peste e il lazzaretto

Palazzo Sclafati, Palermo 1446. Il Maestro del Trionfo della Morte sta terminando un affrescando di straordinarie dimensioni. Oggi ignoto, non si conoscono informazioni. Probabilmente straniero, catalano o provenzale, viene chiamato da Alfonso V d’Aragona. Dipinge le atrocità che di lì a poco si sarebbero scatenate nel nord Italia.

Poco dopo la metà del Quattrocento a Mantova viene costruito il Lazzaretto di Mapello nella zona di confluenza tra il Naviglio e il Lago Superiore. Si tratta di una costruzione in anticipo rispetto ad altre città come Milano dove la prima proposta fu avanzata solo nel 1468. Quello di Mantova si data dieci anni prima. Il termine ha anche una profonda radice popolare. Mapèl è un’espressione che viene usato per alludere ad una situazione di confusione. Per i mantovani significava la peste.

Il nome Mapello è già presente nel XII secolo quando viene citato nel 1189 un tale Guilielmi de Mapello e nel 1199 un Guilielmo Mapelli, entrambi come teste di atti notarili. Nel 1443 viene citata invece la presenza di un taverna. Questa informazione fa pensare che la zone fosse già luogo di passaggio. Con l’avvio dei lavori del Naviglio – datazione 1455 – si intensifica la costruzione dell’Ospedale. Tre anni più tardi si apprende che il marchese Ludovico II Gonzaga ha “una casetta a Mapello” dove si stabiliscono gli zoieleri a lavorare. A questa data la zona quindi risulta una borgata con una taverna, alcune abitazioni, lavoratori saltuari e abitanti residenti nei pressi. I lavori subiscono una brusca interruzione nel periodo in cui alloggia in città il papa Pio II che, per l’occasione, visita il lazzaretto e “lì stete fino la sera”. Nel 1461 si procede alla copertura dei tetti e subito dopo nei documenti si parla di letti forniti da trasportare al Mapello ovvero con l’occorrente per essere usati. Nel Mapello c’era anche una piccola chiesa dedicata a San Lino. L’ospedale è terminato. Giusto in tempo perché nell’ottobre del 1463 scoppia una nuova epidemia di peste. Il marchese e la sua famiglia si trasferiscono a Revere così come quegli abitanti che si spostano nelle campagne. Ludovico, riferendosi al Mapello, scrive degli ammalati: “lì ge serìa proveduto de medicine et quanto havesse bisogno et se moriseno, morerìano come cristiani, che stasendo ali casoni mòreno come cani”. Da un primo resoconto datato dicembre del 1463 si può desumere che il Lazzaretto ospitasse fino a 50 ammalati, ricoverati in ambienti separati a seconda dello stadio della malattia e senza discriminazione tra cristiani ed ebrei. L’epidemia del 1463 passò come le altre arrivate in precedenza lasciando lo spazio per il conteggio dei morti, il risanamento e l’aumento di popolazione. La calma durò soli 5 anni. Arrivarono poi le ondate del 1468 e del 1478. Il Mapello divenne il centro di isolamento per gli infetti più gravi. Fra il 30 settembre e il 1 ottobre 1478 vennero censite in città 8.795 persone. 

 

Immagine: Trionfo della Morte, 1446 – Galleria regionale di Palazzo Abatellis, Palermo

Bibliografia: Giuliano Mondini, Soave: il territorio e la sua gente, 1997

L’Ospedale Grande di Mantova. Una storia di spostamenti

1450. Mentre il mondo – o almeno l’Europa – viene attraversato dalla rivoluzionaria stampa della Bibbia di Gutenberg a caratteri mobili a Mantova è in atto un cambiamento urbano e di pensiero. Per volontà del marchese Ludovico II si avvia il cantiere della costruzione dell’Ospedale Grande che doveva riunire e fondere i preesistenti ospedali e ospizi presenti in città e nei borghi limitrofi. La bolla di papa Niccolò V, del 14 marzo 1449, andava proprio nel verso di un’evoluzione laica delle locali attività assistenziali.

L’ARCHITETTO. Il progetto viene affidato o ad Antonio Manetti, allievo del Brunelleschi, e documentato a Mantova tra il 1448 e il 1552 oppure a Luca Fancelli. Più famoso, più quotato e allievo di Leon Battista Alberti e già al servizio dei Gonzaga dal 1451. Comunque tutto è in linea con il dictat imposto da Ludovico: la renovatio urbis della città deve passare attraverso le forme fiorentine.

IL LUOGO. L’edificio viene eretto nel quartiere di San Leonardo, in una zona rialzata e ritenuta salubre e la più adatta dopo i controlli del caso. Facilmente accessibile per via d’acqua e di terra, dai cittadini e dal contado, vicina all’Ancona di Sant’Agnese e al ponte dei Mulini. Della struttura non è rimasto quasi nulla a parte i cortili e qualche capitello ma l’area è identificabile con l’attuale sede della Polizia stradale. L’ospedale, ormai in linea con quelli già costruiti, doveva prevedere una serie di giardini e cortili interni, uno spazio centrale che potesse agire da controllo periferico e un chiostro lungo tutto il perimetro. Una volta incamerati gli archivi e sistemate le diverse aree e relative funzioni, l’edificio inizia a svolgere la sua attività dal 1472 anche se non del tutto terminato. La chiesa centrale del complesso fu dedicata a Santa Maria del Consorzio.

LE DATE. L’edificio svolse le sue funzioni fino al 1630. In seguito al sacco di Mantova, al cambiamento tra Gonzaga e Nevers e ad una conduzione amministrativa poco virtuosa l’Ospedale si avviò verso un declino economico e di importanza. In seguito il governo austriaco dal 1770 promosse indagini statistiche e sanitarie, proposte di risanamento che comportarono il trasferimento all’Ospedale Grande dei beni del soppresso monastero dei padri Camaldolesi e del patrimonio delle monache di Sant’Orsola. Intanto Paolo Pozzo viene incaricato di restaurare l’edificio e si proporre altre soluzioni tra cui i progetti di riconversione dell’ex convento di San Sebastiano e della Favorita. Ma il 1797 e le truppe di Napoleone incombono e l’Ospedale fu trasferito per un solo anno nel convento di San Barnaba. Qui rimase fino al 1811 quando poi fu spostato negli edifici conventuali della Chiesa di Sant’Orsola e nella vicina Casa Sacchetti in corso Vittorio Emanuele. Ora l’Ospedale occupa le dimensioni di un intero quartiere, fino a via Solferino, per un totale di 18.000 metri quadrati.

L’ULTIMO SPOSTAMENTO. La nuova sede si dimostrò insufficiente e inadeguata soprattutto per le necessità di isolare i malati di tubercolosi, per problemi igienici e il bisogno di costruire nuovi reparti per le cure idro ed elettroterapiche. Nel 1904 si affronta il problema della nuova collocazione. Scartata l’ipotesi di corso Garibaldi si arriva alla decisione finale e conclusiva di individuare l’area, fuori dalle mura cittadine,  di Belfiore ora detta borgo Pompilio. Il primo padiglione progettato è proprio quello per i tubercolosi, anno 1913, ad opera dell’architetto bolognese Giulio Marcovigi. La nuova struttura composta da 11 palazzine, 4 padiglioni principali, l’ospedale infantile e la chiesa venne inaugurato il 28 ottobre 1928.

 

Immagine: Libro degli infermi dello Spedale Civico di Mantova, 1807-1821 (ASMn, Ospedale vers. 2002, busta 83, n. 1) 

Bibliografia: Quadri, libri e carte dell’Ospedale di Mantova. Sei secoli di arte e storia, Tre lune edizioni, 2002. 

La chiesa di San Cristoforo. Una storia di resilienza

La storia della chiesa di San Cristoforo è fatta di accoglienza, trasferimenti e condivisione di uno stesso spazio. L’ordine dei celestini si trasferisce a Mantova nel 1273 e si insedia nella zona nei pressi del Redevallo – dove sorge ancora oggi in via Acerbi – gestendo un oratorio precedente intitolato a Sant’Anna. Nel 1413 Guido degli Orefici fonda un ospedale a fianco. Nel 1480 il vecchio oratorio viene inglobato nella nuova struttura e ne diventa la cappella interna. Nel 1665 prendono sede la compagnia dei bombardieri presso l’altare di Santa Barbara e in seguito la compagnia di Sant’Anna.

Nel 1774 mentre i celestini lasciano Mantova il monastero viene ceduto agli Olivetani provenienti dalla chiesa di Santa Maria del Gradaro. Questo comporta il trasferimento delle opere da una chiesa all’altra. Nel frattempo la struttura, su progetto di Paolo Pozzo, diventa neoclassica. Nel 1799 si trasferiscono qui le monache benedettine di San Giovanni delle Carrette a seguito della soppressione del loro convento.

Anche San Cristofono viene chiusa al culto e i suoi beni alienati. Nel 1813 viene adibita a deposito e qualche decennio dopo verrà abbattuto il campanile. Nel Novecento lo spazio verrà utilizzato come officina, laboratorio e magazzino. Dal 2016 ennesima trasformazione in luogo di cultura e di creatività diventando il San Cristoforo Urban Center. Le chiese raccontano una storia straordinaria di resilienza.

 

Bibliografia: Le chiese della città di Mantova nel ‘700. Repertorio, Quaderni di San Lorenzo 17, Associazione per i monumenti domenicani, Mantova 2019 

Immagine: Fotografia della facciata della chiesa

L’ospedale nel Castello. Gli spagnoli, un Gonzaga e Michelangelo

Una data fa cambiare i connotati al Castello degli Sforza. Nel 1535 muore nel Castello di Vigevano Francesco II Sforza dopo che, un anno prima, si era sposato con Cristina di Danimarca figlia di Cristiano II e di Isabella sorella di Carlo V. Con la morte del nono duca termina la dinastia e il Castello perde la sua funzione di residenza nobiliare. Dal 1546 arriva un Gonzaga. E’ Ferrante, fratello di Federico II, che diventa capitano generale e luogotenente dell’imperatore. Da pratico e abile uomo militare implementa il sistema difensivo del castello attraverso un apparato di fortificazioni che farà assumere alle mura attorno una forma di grande stella a dodici punte.

Il Castello diventa la sede della guarnigione spagnola ospitando all’interno circa duemila soldati, un ospedale, una spezieria, botteghe, un panettiere, due forni, un’osteria e una nevera ovvero un deposito di ghiaccio. Ancora oggi c’è un’area del castello che si chiama “quartiere dell’ospedale spagnolo”. L’antico Ospedale viene costruito da Sancho de Guevara y Padilla, governatore di Milano dal 1580 al 1583. La data riportata in lettere romane fa riferimento al 1577 quando a Milano scoppia la peste di san Carlo. Nei quattro ambienti della precedente struttura dal 2015 è collocato il Museo Pietà Rondanini con il capolavoro di Michelangelo.

Nel Castello si svolgono due importanti matrimoni: nel 1432 il fidanzamento di Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti (si sposeranno solo 9 anni dopo) e nel 1554 quello tra Filippo II e Maria Tudor regina d’Inghilterra.

 

Bibliografia: Il Castello Sforzesco di Milano, Marsilio 2016

Immagine: Veduta dall’alto del castello sforzesco