Il capitale di Cosmè Tura. Case, terreni e investimenti

Qualcosa in comune tra Mantegna e Cosmè Tura? Le molte case di proprietà e una certa inclinazione per gli affari. Dal 1464 era proprietario a Ferrara di una casa in muratura a due piani in contrada Centoversuri e ne aveva un’altra presso porta San Pietro donata nel 1471 da Borso d’Este. Ma non finisce qui. Nel 1479 ne acquista una terza in contrada Boccacanale, da un certo Alberto della Grana, per un valore di 200 lire di marchesini ma poi rivenduta nel 1482. Quarta casa acquistata nel febbraio 1480 in contrada di Ognissanti, cedutagli da Antonio de Franco per 150 lire. Nel mese di ottobre poi rileva i diritti su un casale da Lorenzo de Arduino.

A questi possedimenti va aggiunto un terreno agricolo nella villa di Tessarolo, conservato fino al 1485. Cosmè Tura aveva un capitale del tutto invidiabile. Infatti dalla metà degli anni Settanta – e con ritmo crescente – per circa dieci anni finanzia “a metà del lucro e metà del danno” gli investimenti nelle varie arti di mercanti e artigiani ricevendo cospicui interessi.

Per questo stupisce la supplica indirizzata al duca il 9 gennaio 1490 quando, a cinque anni dalla morte, il pittore afferma di non avere altra fonte di reddito per poter provvedere al sostentamento della sua famiglia e di essere “maximamente infermo de tale infirmitade che non senza grandissima spesa e longeza de tempo mi potrò convalere”.

Bibliografia: Monica Molteni, Cosmè Tura, Federico Motta Editore 1999

Immagine: Musa Calliope, dettaglio 1455-60 (National Gallery, Londra)

Un ungherese a Ferrara tra Leonello e Borso

Pannóniai Mihály ovvero l’italianizzato Michele Pannonio, noto anche come Michele Ongaro o Michele Dai. Nasce in Ungheria, prima del 1415, e muore a Ferrara nel 1464 vivendo il periodo di governo di Leonello e di Borso d’Este.

Lavora infatti per Leonello allo Studiolo di Belfiore dove realizza una delle nove muse ovvero Thalia, oggi conservata al Museo di Belle Arti di Budapest. Lo Studiolo così come la residenza di Belfiore – una delle delizie estensi – sono andati perduti a causa di un incendio nel 1632.

Pannonio lavora tra due linguaggi, quello gotico e le prime novità del Quattrocento. La sintesi che ne emerge si vede chiaramente nella musa Thalia. La figura allungata, il panneggio quasi scolpito, l’esuberanza decorativa e i motivi classicheggianti. Tutti rimandi a differenti linguaggi: le novità della bottega padovana dello Squarcione, lo stile dei fiamminghi, l’arte veneta, quella fiorentina di Piero della Francesca, la miniatura estense e la scultura di Donatello.

Tra le ipotesi possibili c’è chi suggerisce un periodo di formazione presso la bottega di Gentile da Fabriano e di conseguenza la visione diretta dei monumenti, delle opere e dei linguaggi di Firenze, Roma e Padova. Si inserì di certo nella cultura italiana anche dal punto di vista sociale visto che, oltre a risiedere alla corte di Ferrara, sposò la figlia del medaglista Giovan Battista Amadeo.

Bibliografia: Monica Molteni, Cosmè Tura, Federico Motta Editore 1999

Immagine: Thalia,1456-1457 (Museo di Belle Arti di Budapest)

Mantova assediata. Baldassarre Scorza cronista sotto le bombe

Mantova, sul finire del Settecento. La città, praticamente a detta di tutti, è una fortezza impenetrabile. Mura, bastioni, baluardi e laghi formavano un sistema difensivo a prova di esercito. Tra il 1796 e il 1799 questa considerazione verrà messa in forte discussione a causa di tre assedi – due francesi e uno austriaco – che trasformano la città in una polveriera. Nella primavera del 1796 Napoleone entra in Italia. II barone Montagu di Beaulieu, generalissimo austriaco, deve ritirarsi con gran passo e raccogliere il suo quartier generale a Roverbella. Per Mantova le possibilità sono due: attendere il rinforzo delle truppe alleate – ipotesi poco probabile già al tempo – oppure fare della città un fortino testardo e battagliero. Si sceglierà questa strada. Mentre Milano era già caduta, Mantova dovrà resistere e prepararsi ad un logorante assedio che inizia il 3 giugno 1796.

19 luglio 1796, è passato un mese abbondante. Baldassarre Scorza tiene un diario su cui, da cronista molto preciso, diventa testimone oculare che traccia le vicende dall’inizio alla fine. In questa data così scrive: “Eravamo alle 10 della sera, appena partiti dal teatro, dove per accidente i nostri comici avevano rappresentato la commedia di Carlo XII […] quando li francesi rialzarono il sipario per rappresentare con un rapido passaggio dal finto al vero, l’apertura dell’assedio di Mantova”. Si inizia con un falso attacco verso Porta Pradella, sul Lago Inferiore, il Gradaro, San Niccolò e l’Anconetta. Poi da Belfiore e dalla Cipata partì un “diluvio di granate, di bombe e di palle infocate”. Nel frattempo le ostilità di aprirono anche nello spalto di Cittadella tre pattuglie vengono sbaragliate. Dai mortai di Cipata, Belfiore e Pietole “il fragore di tanti scoppi slanciati dagli avversari nientemeno di 500 tra bombe e palle infuocate, e da noi corrisposto forse in numero duplicato. Il fuoco più infernale delle bombe durò sino alle 6 di questa mattina. Dalle 6 alle 8, il nemico non tirò che cannonate, e così fecimo anche noi per tutto il giorno”.

Molte furono le case danneggiate, i civili feriti e rimasti uccisi. Le più bersagliate, racconto Scorza, sono state la casa Colloredo, Donesmondi e le chiese vicine compreso il convento di San Barnaba perché convinti che ancora fosse presente un deposito di polvere da sparo spostato invece in precedenza. Altre le terribili conseguenze: “una palla spezzò una catena del ponte levatoio al Vaso, che trasmette le acque del lago superiore al lago di mezzo. Un’altra palla infuocata penetrò nella bottega del fornaio di Sant’Egidio, e nel rimbalzare dal muro, che aveva percosso, uccide la di lui moglie insieme alla di lui figlia, che bambina teneva alle mammelle. Iddio le dia requie”.

 

Immagine: Lasinio Basilio, Veduta della Città e Piazza di Mantova dalla parte del Ponte San Giorgio cinta d’Assedio dall’Armata Francese, e difesa dalla Guarnigione Austriaca l’An: 1796 (stampa, acquaforte e bulino) – Fonte: http://www.lombardiabeniculturali.it/stampe/schede/M0230-00312/ 

Bibliografia: Luigi Pescasio, Mantova a lume di candela. Noterelle di vita settecentesca, Edizioni Bottazzi, Suzzara 1998 

L’Ospedale Grande di Mantova. Una storia di spostamenti

1450. Mentre il mondo – o almeno l’Europa – viene attraversato dalla rivoluzionaria stampa della Bibbia di Gutenberg a caratteri mobili a Mantova è in atto un cambiamento urbano e di pensiero. Per volontà del marchese Ludovico II si avvia il cantiere della costruzione dell’Ospedale Grande che doveva riunire e fondere i preesistenti ospedali e ospizi presenti in città e nei borghi limitrofi. La bolla di papa Niccolò V, del 14 marzo 1449, andava proprio nel verso di un’evoluzione laica delle locali attività assistenziali.

L’ARCHITETTO. Il progetto viene affidato o ad Antonio Manetti, allievo del Brunelleschi, e documentato a Mantova tra il 1448 e il 1552 oppure a Luca Fancelli. Più famoso, più quotato e allievo di Leon Battista Alberti e già al servizio dei Gonzaga dal 1451. Comunque tutto è in linea con il dictat imposto da Ludovico: la renovatio urbis della città deve passare attraverso le forme fiorentine.

IL LUOGO. L’edificio viene eretto nel quartiere di San Leonardo, in una zona rialzata e ritenuta salubre e la più adatta dopo i controlli del caso. Facilmente accessibile per via d’acqua e di terra, dai cittadini e dal contado, vicina all’Ancona di Sant’Agnese e al ponte dei Mulini. Della struttura non è rimasto quasi nulla a parte i cortili e qualche capitello ma l’area è identificabile con l’attuale sede della Polizia stradale. L’ospedale, ormai in linea con quelli già costruiti, doveva prevedere una serie di giardini e cortili interni, uno spazio centrale che potesse agire da controllo periferico e un chiostro lungo tutto il perimetro. Una volta incamerati gli archivi e sistemate le diverse aree e relative funzioni, l’edificio inizia a svolgere la sua attività dal 1472 anche se non del tutto terminato. La chiesa centrale del complesso fu dedicata a Santa Maria del Consorzio.

LE DATE. L’edificio svolse le sue funzioni fino al 1630. In seguito al sacco di Mantova, al cambiamento tra Gonzaga e Nevers e ad una conduzione amministrativa poco virtuosa l’Ospedale si avviò verso un declino economico e di importanza. In seguito il governo austriaco dal 1770 promosse indagini statistiche e sanitarie, proposte di risanamento che comportarono il trasferimento all’Ospedale Grande dei beni del soppresso monastero dei padri Camaldolesi e del patrimonio delle monache di Sant’Orsola. Intanto Paolo Pozzo viene incaricato di restaurare l’edificio e si proporre altre soluzioni tra cui i progetti di riconversione dell’ex convento di San Sebastiano e della Favorita. Ma il 1797 e le truppe di Napoleone incombono e l’Ospedale fu trasferito per un solo anno nel convento di San Barnaba. Qui rimase fino al 1811 quando poi fu spostato negli edifici conventuali della Chiesa di Sant’Orsola e nella vicina Casa Sacchetti in corso Vittorio Emanuele. Ora l’Ospedale occupa le dimensioni di un intero quartiere, fino a via Solferino, per un totale di 18.000 metri quadrati.

L’ULTIMO SPOSTAMENTO. La nuova sede si dimostrò insufficiente e inadeguata soprattutto per le necessità di isolare i malati di tubercolosi, per problemi igienici e il bisogno di costruire nuovi reparti per le cure idro ed elettroterapiche. Nel 1904 si affronta il problema della nuova collocazione. Scartata l’ipotesi di corso Garibaldi si arriva alla decisione finale e conclusiva di individuare l’area, fuori dalle mura cittadine,  di Belfiore ora detta borgo Pompilio. Il primo padiglione progettato è proprio quello per i tubercolosi, anno 1913, ad opera dell’architetto bolognese Giulio Marcovigi. La nuova struttura composta da 11 palazzine, 4 padiglioni principali, l’ospedale infantile e la chiesa venne inaugurato il 28 ottobre 1928.

 

Immagine: Libro degli infermi dello Spedale Civico di Mantova, 1807-1821 (ASMn, Ospedale vers. 2002, busta 83, n. 1) 

Bibliografia: Quadri, libri e carte dell’Ospedale di Mantova. Sei secoli di arte e storia, Tre lune edizioni, 2002. 

Quanti sono gli studioli nel Castello di San Giorgio? Non uno ma tre!

Il primo studiolo di un principe in Italia fu quello realizzato per Lionello d’Este nel 1447 all’interno della Delizia di Belfiore – oggi scomparsa – decorato con tarsie lignee e tavole raffiguranti le Muse ad opera di Michele Pannonio e Cosmè Tura. Quello che Isabella d’Este, non tradendo le sue origini, farà realizzare dal 1497 all’interno del Castello di San Giorgio non è stato il primo dei Gonzaga. Viene preceduto nel 1483 da quello di Federico I e ancora prima da quello di suo padre Ludovico II. Entrambi pensati come luoghi della memoria personale, della riflessione e della raccolta di opere d’arte tra cui molti pezzi antichi. In una lettera del 9 maggio 1460 scritta da Zaccaria Saggi si fa cenno ad una “cameretta secretta del nostro I. S. in castello”. Alla decorazione di questo spazio per il marchese Ludovico II probabilmente lavorò Luca Fancelli tra il 1460 e il 1462 al quale si riferiscono una serie di lettere. In conclusione gli studioli a Mantova sono stati tre e sempre probabilmente coincidenti tutti con lo stesso ovvero quello che farà realizzare Isabella.

Bibliografia: Giovanni Agosti, Su Mantegna I, Feltrinelli 2006

Immagine: Andrea Mantegna, Il Parnaso (1496-1497 Louvre)