Giorgione, Tiziano e il Fondaco dei Tedeschi. La nuda e le facciate dipinte

Notte del 27 gennaio 1505, Venezia. Si accende un grande incendio nel Fondaco dei Tedeschi, sede commerciale della Germania in Laguna, una sorta di albergo-magazzino a loro utilizzo esclusivo. In realtà non era solo per i tedeschi ma con questo termine si indicavano tutte le persone provenienti dal nord Europa. Il Senato veneziano in meno di cinque mesi approva il progetto per il recupero dell’edificio di origine duecentesca. Nel 1508 il nuovo palazzo era già terminato. Al piano terra era collocato il magazzino, mentre ai piani superiori c’erano 200 stanze adibite ai mercanti potevano mangiare e dormire.

Gli affreschi furono eseguiti da Giorgione e da un giovanissimo Tiziano che al tempo doveva avere circa vent’anni. Gli affreschi allegorici per esaltare l’indipendenza e la potenza della Repubblica dall’imperatore Massimiliano I. Giorgione si occupò di affrescare la facciata che dava sul Canal Grande, mentre Tiziano si trovò sulla parte laterale sul rio dell’Olio. Inoltre i commercianti tedeschi potevano seguire le funzioni religiose in una piccola chiesa che si trovava vicino al fondaco. Nella cappella della chiesa di San Bartolomeo era stata collocata la pala d’altare di Albrecht Dürer, la Festa del Rosario firmata e datata 1506.

Degli affreschi non rimane più traccia in loco perché nell’Ottocento si è deciso di spostarli nelle sedi museali. Quelli rimasti, visibili presso la Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro e dell’Accademia, sono comunque di difficile lettura. Nel 1508, in occasione dell’apertura dell’edificio, gli affreschi non erano ancora terminati tanto che sembra sia sorto anche un contenzioso circa il compenso dovuto a Giorgione. Il pittore percepì un compenso totale – comprese le spese – di 130 ducati. Quasi il doppio rispetto a quanto era rimasto nella sua abitazione dopo la morte che un inventario indica pari a 70 ducati.

Cosa rappresentavano gli affreschi? quale il loro significato? chi fu l’ideatore del programma iconografico? Probabilmente una serie di filosofi, figure mitologiche o bibliche, capaci di farsi allegorie della pace politica o della prosperità commerciale di Venezia? Interessante l’ipotesi proposta dallo storico dell’arte Alessandro Nova di un riferimento ai pianeti e ai vari metalli prodotti in Germania che passavano per Venezia. Negli stessi anni ci sono tanti esempi di facciate dipinte con motivi allegorici, basta vedere la città di Trento o a Verona e molte città d’Oltralpe, una moda in voga già nel secolo precedente.

E nella stessa Venezia di Giovanni Bellini e Jacopo de’ Barbari? c’erano esempi coevi di facciate dipinte a tema profano? La risposta è incerta, non sono documentate. Quello che è certo è la svolta che il ciclo produsse agli occhi dei veneziani.

Bibliografia: Giorgione, a cura di Enrico Maria Dal Pozzolo e Lionello Puppi, Skira 2009 | Alessandro Nova, Giorgione e Tiziano al Fondaco dei Tedeschi 2008

Immagine: Giorgione, La nuda, 1508 (Gallerie dell’Accademia, Venezia)

Verona prima dell’anno mille e le vicende di Raterio tre volte vescovo

C’è una rappresentazione di Verona nota con il nome di Iconografia rateriana o Civitas Veronensis Depicta. Si tratta della più antica rappresentazione della città e risale alla prima metà del X secolo. Perché porta questa nome?

Da Raterio, vescovo, predicatore e scrittore, nato a Liegi nell’887. Studia nell’Abbazia benedettina di Lobbes divenendone poi monaco. Nel 931 con l’abate di Lobbes arriva in Italia, viene accolto dal re Ugo di Provenza, cugino dell’abate, e nello stesso anno riceve il vescovato della Diocesi di Verona. La situazione rimane stabile per soli due anni poi, in conflitto con la diocesi e con il re, Raterio viene mandato a Pavia in prigione – secondo Raterio si è trattato di carcerale supplicium – poi in esilio a Como da dove scappa per trovare rifugio in Provenza nel 939. Qui rimane cinque anni prima di rientrare nell’abbazia di Lobbes. Tra il 946 e il 948 diventa per la seconda volta vescovo di Verona prima di fuggire di nuovo, destinazione Germania. Dal 935 al 955 ricopre l’incarico di vescovo di Liegi ma viene cacciato anche da qui. Siamo arrivati al 962. Terza volta a Verona e per la terza volta viene nominato vescovo grazie all’appoggio di Ottone I. Sei anni dopo nuova fuga, nuovo rifugio nell’abbazia di Lobbes.

A Verona Raterio si è contraddistinto per un marcato attivismo nel governo della diocesi e nell’amministrazione dei beni della Chiesa locale. Forse fu proprio questo il motivo che avviò i contrasti con il re Ugo che infatti non gli ha voluto corrispondere una parte consistente di entrate spettanti all’episcopio. L’ostilità tra i due non va oltre ma si concretizza nell’occasione di allontanarlo da Verona grazie alla campagna di conquista condotta da Arnolfo duca di Baviera. Il conte di Verona Milone e lo stesso Raterio si schierarono probabilmente con Arnolfo mentre il re Ugo, uscito vincitore dallo scontro, ha avuto così il pretesto per allontanare il vescovo da Verona.

L’iconografia rateriana, come del resto le mappe del tempo, non volevano essere una rappresentazione esatta del luogo. Semmai se ne evidenziano i luoghi principali. Il fiume Adige sgorga dalla bocca di un vecchio e divide Verona in due parti uguali. Nell’inferiore gli edifici della civitas antica – fra cui l’Arena – nella superiore invece la parte che corrisponde al Colle San Pietro ovvero il castrum tardoantico. Qui vengono rappresentati il teatro romano – definito arena minor – e il palatium, sede del sovrano Teodorico. Il centro esatto dell’iconografia è il pons marmoreum ovvero Ponte Pietra, collegamento e punto di passaggio della Via Postumia. Si tratta del codice appartenuto proprio a Raterio, il ricordo che aveva della città dove è stato vescovo tre volte per un totale di dieci anni, la testimonianza di Verona com’era poco prima dell’anno Mille.

Bibliografia: fonte Treccani https://www.treccani.it/enciclopedia/raterio_%28Dizionario-Biografico%29/

Immagine: fonte wikipedia. Si tratta della copia commissionata da Scipione Maffei

Il maiale medievale di Sant’Antonio. Quando il 17 gennaio per i mercanti era una scadenza

Sant’Antonio, considerato il primo degli abati, visse i suoi ultimi giorni nel deserto della Tebaide pregando, coltivando un piccolo orto. Qui morì all’età di 105 anni. La sua figura è avvolta da molte tradizioni religiose e popolari legate al 17 gennaio. Feste, riti, usanze, proverbi, preparazioni, ricette e processioni. Il suo nome è stato dato ad una malattia virale della cute, l’herpes zoster, è già il suo culto taumaturgico si sviluppa in Francia nel XII secolo e veniva invocato il nome del santo da cui Fuoco di Sant’Antonio. Certamente legato poi alle famose tentazioni. Protettore dei salumai, norcini, macellai e canestrai.

Nel passato medievale invece si trattava di un giorno che ricordava una scadenza importante. Infatti entro tale data i mercanti dovevano presentare la loro richiesta di iscrizione all’albo professionale della categoria. In pratica si trattava di una immatricolazione che avveniva alla presenza dei Consoli, del Consiglio e anche di tutti i mercanti già appartenenti all’Università. Oltre a questo evento formale era seguito poi il versamento della tassa di iscrizione di 2 lire e mezza. Considerato il protettore degli animali domestici il santo è spesso raffigurato accanto ad un maiale, tanto da farne uno dei simboli iconografici. E’ in questo giorno in cui si benedicono gli animali e le stalle. Questa usanza nasce proprio nel Medioevo in Germania quando era consuetudine che ogni villaggio allevasse un maiale per farne dono all’ospedale dove prestavano servizio i monaci di Sant’Antonio. L’ordine degli Antoniani nasce dalla volontà di un nobile che, guarito il figlio dal fuoco di Sant’Antonio, decise di costruire un hospitium e fondare una confraternita proprio per l’assistenza dei malati e dei pellegrini. L’ordine verrà confermato nel 1218.

Bibliografia: Rita Castagna, Mercanti ed artigiani nella Mantova dei Gonzaga, 1980

Immagine: Madonna tra i santi Abate e Giorgio, Pisanello 1445 (National Gallery)

Anche i principi del Rinascimento potevano avere Saturno contro

Dei principi rinascimentali si diceva che “non si sarebbino calzati un par di scarpe nuove, non si sarebbino mutati di camisa, nonché congiunti con le loro mogli senza aver lo astrolabio in mano”. Esagerando un po’ questo pensiero traduce la cultura del tempo che quasi tutto vedeva e traduceva attraverso la lettura del cielo. Stelle e astri si riflettono nella vita quotidiana, nelle scelte e negli avvenimenti. Così la posa della prima pietra di un edificio o di una chiesa, l’entrata in guerra, il matrimonio, le esequie e l’elezione del nuovo papa. Tutto era governato dal parere del cielo. Ancora più determinante, se si era principe, risultava l’esatto momento della nascita. Perché da questo dipendeva poi il tema natale e la decorazione iconografica che avrebbe accompagnato la futura politica di immagini del principe. Gli astrologi erano uomini di fiducia che spesso erano anche consiglieri e medici. Si servivano di strumenti particolari, dei calcolatori, per effettuare le loro misurazioni e determinare segno, ascendente, influssi. C’era quello per misurare le fasi della luna e degli altri pianeti, quello per gli aspetti dei pianeti ovvero per determinare la loro distanza. In congiunzione se uguale a zero, in sestile se a 60 gradi, in quadrato se a 90 gradi, in trigono se di 120, in opposizione se di 180. Quello che noi oggi sentiamo come “Saturno contro”. Altri strumenti del Cinquecento calcolavano la latitudo Veneris. Infatti il cielo non ha sempre la stessa configurazione, muta in base al movimento della terra e degli altri pianeti. Per questo occorre determinare con esatta precisione il momento della nascita. Nella Camera dei Venti a Palazzo Te, sulla porta della parete sud, è presente questa iscrizione di Giovenale: DISTAT ENIM QVAE SYDERA TE EXCIPIANT. Ovvero: Dipende da quali stelle ti ricevano quando nasci.

Bibliografia: Le corti italiane del Rinascimento, Mondadori 1985

Immagine: Palazzo Farnese a Caprarola, Taddeo e Federico Zuccari (1565)