Londra e la birra. Mille taverne, la tassa e il pepe

Putney, Cinquecento. Walter Cromwell è il padre del futuro Primo ministro inglese Thomas. Di professione è fabbro ferraio e maestro birraio. Suo figlio avrebbe dovuto seguire le sue orme. La birra nella Londra del tempo era una bevanda diffusa nelle tantissime taverne. Per capirne la stretta relazione tra la birra e gli inglesi bisogna andare indietro fino al Duecento quando Londra era già nota per essere la città del bere smodato.

C’erano i vini e di qualità. Quelli del Reno e di Guascogna, di Borgogna e Madeira, il bianco spagnolo e il rosso portoghese. Ma i meno ricchi trangugiavano birra. Il luppolo si era iniziato a coltivare dal Trecento ma la birra in questo periodo viene importata. Se ne produce una bevanda curiosa chiamata stingo, birra e pepe. Nel Trecento esplode la mania della birra. Si contano 354 taverne e 1334 fabbriche di birra. Nel Quattrocento invece i birrai sono 269. I tempi erano maturi per la costituzione della Compagnia londinese dei Birrai, riconosciuta pubblicamente con tanto di stemma.

C’era bisogno anche di regole come quella del 1423 che imponeva ai rivenditori di vendere la birra nelle loro case solo in brocche di peltro sigillate. Chi non le avesse veniva multato. Ubriacarsi era diventato un problema al punto che nel 1574 furono chiuse duecento birrerie. In quest’epoca, ai tempi di Elisabetta I, erano presenti 26 fabbricanti di birra che producevano la Huffe Cup, Mad Dog, Angels’ Food, Lift Leg e Stride Weg. Dentro c’erano ginestrella, pepe, semi di edera, malto e avena. Ma la vera birra si produceva con il luppolo.

La sempre più dirompente popolarità della birra – e di conseguenza il suo consumo – trova l’attestazione nel 1643 quando per la prima volta viene imposta una tassa. Nel Seicento e nel Settecento la birra trova la sua consacrazione. Venne creata la moda della brown ale, la birra scura dolce, e poi la bitter – amarissima anche per Casanova – e la half and half. La più popolare divenne la pale ale, la birra chiara.

Bibliografia: Hilary Mantel, Wolf Hall, Fazi editore 2011 | Peter Ackroyd, Londra, una biografia, Neri Pozza 2013

Immagine: Monaco celleraio prova del vino, da ‘Li Livres dou Sant_’ manoscritto francese, tardo XIII secolo

Quando a Mantova successe un mapèl. Ludovico II, la peste e il lazzaretto

Palazzo Sclafati, Palermo 1446. Il Maestro del Trionfo della Morte sta terminando un affrescando di straordinarie dimensioni. Oggi ignoto, non si conoscono informazioni. Probabilmente straniero, catalano o provenzale, viene chiamato da Alfonso V d’Aragona. Dipinge le atrocità che di lì a poco si sarebbero scatenate nel nord Italia.

Poco dopo la metà del Quattrocento a Mantova viene costruito il Lazzaretto di Mapello nella zona di confluenza tra il Naviglio e il Lago Superiore. Si tratta di una costruzione in anticipo rispetto ad altre città come Milano dove la prima proposta fu avanzata solo nel 1468. Quello di Mantova si data dieci anni prima. Il termine ha anche una profonda radice popolare. Mapèl è un’espressione che viene usato per alludere ad una situazione di confusione. Per i mantovani significava la peste.

Il nome Mapello è già presente nel XII secolo quando viene citato nel 1189 un tale Guilielmi de Mapello e nel 1199 un Guilielmo Mapelli, entrambi come teste di atti notarili. Nel 1443 viene citata invece la presenza di un taverna. Questa informazione fa pensare che la zone fosse già luogo di passaggio. Con l’avvio dei lavori del Naviglio – datazione 1455 – si intensifica la costruzione dell’Ospedale. Tre anni più tardi si apprende che il marchese Ludovico II Gonzaga ha “una casetta a Mapello” dove si stabiliscono gli zoieleri a lavorare. A questa data la zona quindi risulta una borgata con una taverna, alcune abitazioni, lavoratori saltuari e abitanti residenti nei pressi. I lavori subiscono una brusca interruzione nel periodo in cui alloggia in città il papa Pio II che, per l’occasione, visita il lazzaretto e “lì stete fino la sera”. Nel 1461 si procede alla copertura dei tetti e subito dopo nei documenti si parla di letti forniti da trasportare al Mapello ovvero con l’occorrente per essere usati. Nel Mapello c’era anche una piccola chiesa dedicata a San Lino. L’ospedale è terminato. Giusto in tempo perché nell’ottobre del 1463 scoppia una nuova epidemia di peste. Il marchese e la sua famiglia si trasferiscono a Revere così come quegli abitanti che si spostano nelle campagne. Ludovico, riferendosi al Mapello, scrive degli ammalati: “lì ge serìa proveduto de medicine et quanto havesse bisogno et se moriseno, morerìano come cristiani, che stasendo ali casoni mòreno come cani”. Da un primo resoconto datato dicembre del 1463 si può desumere che il Lazzaretto ospitasse fino a 50 ammalati, ricoverati in ambienti separati a seconda dello stadio della malattia e senza discriminazione tra cristiani ed ebrei. L’epidemia del 1463 passò come le altre arrivate in precedenza lasciando lo spazio per il conteggio dei morti, il risanamento e l’aumento di popolazione. La calma durò soli 5 anni. Arrivarono poi le ondate del 1468 e del 1478. Il Mapello divenne il centro di isolamento per gli infetti più gravi. Fra il 30 settembre e il 1 ottobre 1478 vennero censite in città 8.795 persone. 

 

Immagine: Trionfo della Morte, 1446 – Galleria regionale di Palazzo Abatellis, Palermo

Bibliografia: Giuliano Mondini, Soave: il territorio e la sua gente, 1997

L’empia locanda di Bosch. Giganti, uomini-albero e orchestrine infernali

Non tutte le taverne sono luoghi ospitali. Quella dipinta da Bosch ne La tentazione di Sant’Antonio assume le fattezze di un gigante seduto a carponi. L’entrata del locale corrisponde proprio al sedere del gigante con le gambe a forma di radici di albero. Il corpo è ricoperto dall’edifico e dal tetto, la testa urlante è trafitta in fronte da un freccia e ricoperta da rami secchi. Dalla finestra dell’edificio si affaccia un viso di donna coperto da un velo. Gli alberi inariditi sono causati dai desideri della carne. La taverna viene mostrata dunque come il luogo del peccato, il corpo del gigante diventa la metafora di un tempio profanato e dissacrante dal peccato della gola.

L’espressione “empia locanda” – in olandese quade herberge – deriva dalla letteratura contemporanea a Bosch e indicava i bordelli e gli ambigui postriboli con musica, giochi d’azzardo, alcol e prostituzione che al tempo erano descritti e visti come il ricettacolo di qualsiasi vizio. Nel Quattrocento Tommaso da Kempis, nel suo noto De Imitatione Christi, scriveva: “quando la pancia è piena di cibo e alcool, l’impudicizia è davanti alla porta”. Il corpo, empia locanda, non era visto come il contenitore dello Spirito Santo piuttosto come l’impurità che contamina la purezza del culto.

Così nel Trittico delle delizie l’Inferno è dominato al centro dalla figura dell’uomo-albero – come il corpo del gigante-taverna – ovvero un pallido contenitore antropomorfo di cui si vede l’interno. La testa è girata verso di noi e in testa porta un cappello a forma di ostia e una zampogna suonata da una orchestrina infernale. In questo antro si vede una donna che riempie delle brocche da una botte mentre degli uomini sono seduti ad un tavolo su una panca a forma di rospo. I piedi dell’uomo-albero formano due barche ciascuna governata da un diavolo timoniere. Non c’è salvezza.

 

Immagine: Particolare dal Trittico delle delizie, l’Inferno 1503 (Museo del Prado)

Bibliografia: Hieronymus Boasch, L’opera completa, a cura di Stefan Fischer, Taschen 2016