Corradino e le ultime sfide. Tagliacozzo, gli scacchi e gli angioini

29 ottobre 1268. Piazza del Mercato di Napoli, era un lunedì. Muore sul patibolo Corradino di Svevia, l’ultimo della dinastia sveva che subì la tremenda repressione di Carlo d’Angiò. Due mesi prima, il 23 agosto, il passaggio di consegne era avvenuto sul campo di battaglia di Tagliacozzo. I due schieramenti contrapposti erano i ghibellini sostenitori di Corradino e le truppe angioine di Carlo I d’Angiò, di parte guelfa. L’esercito di Corradino, più numeroso, sembra inizialmente aver la meglio ma a fare la differenza sono stati i rifornimenti di truppe fresche guelfe. I morti furono moltissimi così come i prigionieri contro i quali si accanì la sadica ferocia di Carlo mutilandoli e bruciandoli vivi.

Corradino si mise in salvo, si rifugiò nella vicina Maremma nel castello dell’amico Giovanni Frangipane o almeno così reputava perché fu proprio lui a consegnarlo agli Angioini. Corradino venne processato e condannato a morte per decapitazione. La sentenza viene letta da Giovanni Bricaut cavaliere francese mentre Corradino si trovava nella cella insieme ad un altro detenuto, Federico d’Austria. I due giocavano a scacchi. Sentita la sentenza i due giovani chiesero i regolari tre giorni per potersi preparare ad una morte da buon cristiano.

Venne il giorno. Prima toccò a Corradino, poi a Federico. Entrambe le teste rotolarono come da prassi dopo un sol colpo di mannaia. Ai corpi però non fu concessa la sepoltura in terra consacrata. Avvolti in un lenzuolo furono buttati in una fossa. Solo più tardi le ossa – forse veramente quelle di Corradino? – furono trasferite nella Chiesa dei Carmelitani. Non sapremo mai anche se vinse la sua ultima partita, con quale mossa aprì e chiuse, quanti pezzi prese al suo avversario e in quante mosse. Almeno qui possiamo avanzare l’ipotesi che non abbia perso.

Bibliografia: Giuseppe Quatriglio, Mille anni in Sicilia. Dagli Arabi ai Borboni, Marsilio 1996

Immagine: Miniatura della Cronaca di Giovanni Villani, Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Chigi L VIII 296, fol. 112v

Un sabato del 1709. Un impiccato, uno squartato e una testa tagliata

Mantova, sabato 19 gennaio 1709. L’avviso in strada così cominciava: “Questa mattina giorno di sabbato 19 gennaro 1709 in Mantova…”. S’impicca Francesco Agnelli della Cappella per aver fatto ammazzare Giovanni Golini di detto luogo per assassinio; si taglia la testa a Caterina Golini sorella di detto Giovanni per aver cospirato con detto Agnelli, e commesso per assassinio la morte del medesimo Giovanni suo fratello; s’impicca e si squarta Gioan-Antonio Argenti da Gazzuolo assassinio esecutore del Mandato di detti Francesco Agnelli e Caterina Golini, col premio di scudi trenta di lire sei piccoli di Mantova.

In fondo a leggere bene dal Medioevo non era cambiato molto. L’avviso che leggete è integrale. Veniva letto in strada, urlando. Da qui il termine di “grida”. I cittadini non avevano ancora terminato di assistere alle nefaste vicende. Ferdinando Carlo Gonzaga, l’ultimo duca, era morto a Padova il 5 luglio del 1708, solo un anno prima. Qualcuno ipotizza per avvelenamento.

Bibliografia: Luigi Carnevali, La tortura a Mantova e altri scritti, Sartori Editore, 1974

Immagine: Pisanello, particolare della Cappella Pellegrini (Chiesa di Sant’Anastasia, Verona)

Cronaca di una morte annunciata. Il processo di Agnese Visconti e Antonio da Scandiano

La storia di Agnese Visconti parla di punizione, di politica maschile, di matrimoni giovanissimi e di una giustizia regolamentata ma poi da modificare a seconda delle esigenze. Agnese e il suo amante Antonio da Scandiano vengono arrestati il 27 gennaio 1391. Francesco I Gonzaga ritiene che l’adulterio della moglie è un crimine nei confronti del suo status. Oltre alla relazione reale che Agnese aveva con Antonio c’è da aggiungere la morte del padre Bernabò Visconti ad opera di Gian Galeazzo con il quale si schiera Francesco. Dalla legislazione comunale per gli accusati di adulterio non era prevista la pena di morte ma una una pena pecuniaria di 100 soldi per l’uomo e nessuna sanzione per la donna. Tra il 4 e 7 febbraio del 1391 si svolge il processo all’interno di una sala del palazzo – sala dei Cimieri – e non nel Tribunale. I giudici sono due: Obizzo dei Garsedini, una delle più note famiglie bolognesi, e Giovanni della Capra, un cittadino di Cremona con licenza in diritto civile. A questi si aggiunge il notaio Bartolomeo de Bomatiis, cittadino mantovano. I testimoni sono sette, tre uomini e una donna. Antonio da Scandiano l’amante, Iacopo Chayno il cameriere del signore, Pietro da Bologna che scopre l’amante, Sidonia di Pavarolo e Beatrixia le domicelle, Domina Brigida e Donna Isabeta la governante della figlia di Agnese. Il processo è di tipo inquisitorio e le prove sono schiaccianti soprattutto grazie al contributo delle due domicelle che rivelano una serie di intimi particolari. La fine del processo si risolve in breve: si legge agli amanti l’atto d’accusa, si chiede loro se riconoscono per vero quanto esposto – cosa che fanno – e i giudici danno un termine di 24 ore per preparare una propria difesa. Cosa impraticabile. La sera dell’8 febbraio scade il termine. La sera stessa o il mattino dopo, molto presto, Agnese e Antonio vengono condannati a morte. Lei per decapitazione e lui per impiccagione all’interno del brolo di Corte Vecchia. Giovanni Cavallo è il carnefice assegnato da giudici. La dote di Agnese e i beni di Antonio vanno al Comune di Mantova. Non ci sono testimoni, probabilmente non c’è Francesco. Il processo termina così.

Bibliografia: Elisabeth Crouzet-Pavan, Jean-Claude Maire Viguer, Decapitate. Tre donne nell’Italia del Rinascimento, Einaudi 2019

Immagine: Bernabò Visconti e Beatrice della Scala, genitori di Agnese (Cappellone degli Spagnoli, Chiesa di Santa Maria Novella Firenze, 1365-1367)