Le monete dei Gonzaga. Bolognini, aquilini e il santo Graal

La monetazione era affidata alla potestà del principe. Con i primi Capitani del Popolo venivano battuti i bolognini e gli aquilini. L’imperatore Enrico VI nel 1191 concesse a Bologna il privilegio di emettere un denaro che si chiamò bolognino. Successivamente venne chiamato piccolo quando iniziò la produzione di quello grosso che valeva come un soldo da 12 denari. Pesavi 1,41 grammi d’argento. Gli aquilini invece indicano, con nome generico, i denari e i grossi che portano l’aquila imperiale. Il periodo è quello svevo di Federico II. Verranno imitati in molte zecche dell’Italia settentrionale anche se inizialmente vengono prodotte solo a Merano dai conti del Tirolo.

A Mantova sarà Gianfrancesco che sostituì le precedenti monetazioni con il grosso d’argento in realtà non così differenti dalla tradizione medievale per aspetto, lega e peso. Era innovativo perché riportava sul recto lo stemma con le aquile inquartate – prima novità dal 1433 – e il nome del marchese – la seconda novità. Mentre sul verso la visione prospettica della città che racchiude al centro la raffigurazione della pisside.

Dopo l’apparato decorativo simbolico in Corte Vecchia con Pisanello, i Sacri Vasi fanno la loro presenza anche sulle monete. I Gonzaga si proclamano i protettori del Santo Graal e attivano il confronto – iconografico e tematico – con la leggendaria corte di Re Artù.

Bibliografia: Storia di Mantova. L’eredità gonzaghesca secoli XII – XVIII, a cura di Marzio A. Romani, Tre Lune Edizioni 2005

Immagine: Grosso da 4 denari. Genova, 1272

Giacoma Foroni, contadina di Roverbella. Ovvero la mancanza di una scienza umana

13 maggio 1802. Relazione, riflessioni e giudizio sul sesso di un individuo umano vivente chiamato e conosciuto sotto il nome di Giacoma Foroni. E’ quanto produce la commissione scientifica dell’Accademia Virgiliana quel giorno e che poi darà alle stampe nello stesso anno. Gli esami e le analisi furono lunghissime e accurate sul corpo di Giacoma, contadina di Roverbella nata il 22 maggio 1779.

I suoi genitori – Antonia Zanetti e fu Girolamo – l’hanno cresciuta nella località Foroni, appena fuori il paese di Roverbella. E forse quella fu la prima volta che si allontanò così tanto da casa. Giacoma non era ermafrodita ma anzi non aveva nessuno dei due organi genitali. La madre Antonia, dopo essere ricorsa a diverse levatrici, viene cresciuta e vestita come una ragazza. Aveva il seno e i capelli lunghi.

L’Accademia così si espresse: Giacoma non è donna, è “uomo ma conformato con bizzarria nel pudendo”. E così i giuristi non potevano fare altro che avvallare il parere medico e rincarare la dose di pochissima umanità: non essendo in grado di procreare non potrà nemmeno sposarsi. Così gli scienziati, i medici, i giuristi avevano deciso senza che Giacoma si pronunciasse. Era più facile giudicarla una bizzarria piuttosto che una persona, era più facile toglierle i diritti che accettarla.

Le sue tracce si perdono ma non siamo lontani dal vero se immaginiamo, dopo quel giorno tremendo di esami, Giacoma ritornare nel suo paese a vivere con sua madre, poi rimanere sola e badare a se stessa. Almeno fino al 1828 quando le viene concessa un’investitura da parte del signor marchese Tullio Guerrieri Gonzaga. La situazione non è cambiata perché il notaio Gaetano Tirelli lascia un segno evidente del suo imbarazzo perché la parte “alla sig.ra Giacoma” è stato scritto sulla correzione “al”. Non poteva certo notarlo Giacoma, analfabeta, che firma con la più classica x.

Bibliografia: Luca Irwin Fragale, “Microstoria ed ermafroditismo nell’Ottocento lombardo: Giacoma Fioroni” in Civiltà mantovana, anno L, n.139 | Roverbella attraverso i secoli: civiltà e culture in una terra di confine, atti delle conferenze, settembre-ottobre 1997 | Archivio di Stato di Mantova, Notariel, notaio Gaetano Tirelli, 12 agosto 1828, n.728

Immagine: Facciata dell’Accademia Nazionale Virgiliana

Quando a Mantova successe un mapèl. Ludovico II, la peste e il lazzaretto

Palazzo Sclafati, Palermo 1446. Il Maestro del Trionfo della Morte sta terminando un affrescando di straordinarie dimensioni. Oggi ignoto, non si conoscono informazioni. Probabilmente straniero, catalano o provenzale, viene chiamato da Alfonso V d’Aragona. Dipinge le atrocità che di lì a poco si sarebbero scatenate nel nord Italia.

Poco dopo la metà del Quattrocento a Mantova viene costruito il Lazzaretto di Mapello nella zona di confluenza tra il Naviglio e il Lago Superiore. Si tratta di una costruzione in anticipo rispetto ad altre città come Milano dove la prima proposta fu avanzata solo nel 1468. Quello di Mantova si data dieci anni prima. Il termine ha anche una profonda radice popolare. Mapèl è un’espressione che viene usato per alludere ad una situazione di confusione. Per i mantovani significava la peste.

Il nome Mapello è già presente nel XII secolo quando viene citato nel 1189 un tale Guilielmi de Mapello e nel 1199 un Guilielmo Mapelli, entrambi come teste di atti notarili. Nel 1443 viene citata invece la presenza di un taverna. Questa informazione fa pensare che la zone fosse già luogo di passaggio. Con l’avvio dei lavori del Naviglio – datazione 1455 – si intensifica la costruzione dell’Ospedale. Tre anni più tardi si apprende che il marchese Ludovico II Gonzaga ha “una casetta a Mapello” dove si stabiliscono gli zoieleri a lavorare. A questa data la zona quindi risulta una borgata con una taverna, alcune abitazioni, lavoratori saltuari e abitanti residenti nei pressi. I lavori subiscono una brusca interruzione nel periodo in cui alloggia in città il papa Pio II che, per l’occasione, visita il lazzaretto e “lì stete fino la sera”. Nel 1461 si procede alla copertura dei tetti e subito dopo nei documenti si parla di letti forniti da trasportare al Mapello ovvero con l’occorrente per essere usati. Nel Mapello c’era anche una piccola chiesa dedicata a San Lino. L’ospedale è terminato. Giusto in tempo perché nell’ottobre del 1463 scoppia una nuova epidemia di peste. Il marchese e la sua famiglia si trasferiscono a Revere così come quegli abitanti che si spostano nelle campagne. Ludovico, riferendosi al Mapello, scrive degli ammalati: “lì ge serìa proveduto de medicine et quanto havesse bisogno et se moriseno, morerìano come cristiani, che stasendo ali casoni mòreno come cani”. Da un primo resoconto datato dicembre del 1463 si può desumere che il Lazzaretto ospitasse fino a 50 ammalati, ricoverati in ambienti separati a seconda dello stadio della malattia e senza discriminazione tra cristiani ed ebrei. L’epidemia del 1463 passò come le altre arrivate in precedenza lasciando lo spazio per il conteggio dei morti, il risanamento e l’aumento di popolazione. La calma durò soli 5 anni. Arrivarono poi le ondate del 1468 e del 1478. Il Mapello divenne il centro di isolamento per gli infetti più gravi. Fra il 30 settembre e il 1 ottobre 1478 vennero censite in città 8.795 persone. 

 

Immagine: Trionfo della Morte, 1446 – Galleria regionale di Palazzo Abatellis, Palermo

Bibliografia: Giuliano Mondini, Soave: il territorio e la sua gente, 1997