Viaggio di un bovino nella Mantova del Settecento. Fede di sanità, bollo e macello

Come entrava la carne in città? C’era un protocollo da seguire presenti anche prima dell’istituzione del Magistrato alla Sanità nel 1750. Gli animali erano ammessi in città solo se accompagnati dalla necessaria fede di sanità che veniva controllata dagli addetti alla sorveglianza presenti alle porte della città. I sorvegliati al macello, dopo il 1750, avevano la loro postazione presso la “piacetta di S. Silvestro”.

Nel Settecento il Macello aveva ancora le stesse forme di quello realizzato nel 1536 da Giulio Romano. Qui dovevano accertarsi che i bovini avessero effettivamente il bollo della Sanità ovvero M. S. Sempre qui le carni degli animali macellati venivano accuratamente ispezionati. Ricordiamo infatti che i medici del Magistrato venivano chiamati per esprimere il parere sulla qualità e sull’igiene della carne.

Se il parere sulla carne fosse stato negativo? Il carico di carne o il bestiame non veniva introdotto in città se proveniente ad esempio da aree infette. Queste disposizioni, come nel Medioevo, servivano proprio per controllare e limitare il contagio in caso di epidemie. Il Magistrato di Sanità proibiva l’introduzione di generi alimentari “guasti e corrotti”. Così per esempio avvenne con la grida del 9 ottobre 1764 in cui si proibiva l’uso di pasta alimentare proveniente dai Regni di Napoli e Sicilia perché sospettata di essere stata preparata con farine guaste. Questo significa che il Magistrato doveva informarsi ed essere sempre aggiornato sulla situazione sanitaria degli altri stati, specialmente con quelli in cui c’erano traffici commerciali attivi.

Bibliografia: La città di Mantova nell’età di Maria Teresa, Regione Lombardia 1980

Immagine: Joachim Beuckeleer, Bottega del macellaio 1568 (Museo Nazionale di Capodimonte)

La peste a Mantova. Lazzaretti, pizamorti e lo zucchero per gli infetti

Le quattro grandi epidemie di peste nel mantovano si sono verificate negli anni 1506, 1527-28, 1575-77 1629-30. Peste e carestia nel 1506 che nel solo mese di aprile portò via 507 persone. A quel tempo era ancora in vita Andrea Mantegna che fece in tempo a passare la peste ma non il mese di settembre. Al termine di quell’anno la popolazione non superava le 12.000 persone. Nel 1528 è il turno di Giulio Romano e del suo staff che vivono la peste a tal punto da interrompere i lavori a Palazzo Te standosene a casa con febbri e per la paura del contagio. Nel 1576 nel solo mese di marzo morirono 675 persone. La popolazione è tre volte tanto i numeri del 1506 e raggiunge le 36.000 unità. Ma è con la peste del 1630 che la popolazione verrà decimata. Due anni dopo si registrano appena poco più di 8.000 persone.

Il medico mantovano Giovan Battista Susio scrive il trattatello Libro del conoscere le pestilenze e dedicato al duca Guglielmo Gonzaga. Si può leggere la descrizione di una diagnosi che risponde alla mentalità dell’uomo del tempo. Il medico scrive il trattato proprio nel 1576 quando all’inizio dell’inverno si verificano una serie di morti. Il duca chiede al medico un parere che presto gli viene fornito ma con qualche riserva: “ma potrà bastare quanto dico al far conoscere la pestilenza e a gittare insieme a terra se non tutti gli errori, almeno i più principali, drizzati in guisa di macchina contro di noi”. Incredibile come al tempo la gente pensasse che l’origine della peste provenisse dai venti che soffiavano da Verona, causata dalla siccità o dalla putrefazione dell’aria: “che vapori elevati dalla terra per longo indugio, e per non esser dalla pioggia levati e portati a basso, siano putrefatti”.

Così scrive l’11 aprile il segretario Calandra durante la peste del 1506: “ogni dì il male accresce, imperciò che non è contrata alcune che o assai o pocho non sij tocca. Le vie circa San Martino e la via Orphea cum le altre vie nove da San Marco sono tutte da ogni canto infecte e da San Sebastiano a Cerese vicino al muro non è quasi alcuna casa sana. Di immune non vi era che il borgo di San Giorgio. Così il numero delle bocche – ovvero delle persone – rimaste all’interno della città: nel quartiere di San Pietro b. 2025; nel quartiere di Sant’Andrea b. 2.505; nel quartiere di San Nicolò b. 3.406; nel quartiere di San Giacomo b. 3.652. Per un totale di 11.588 bocche.

Per le strade si vedeva aggirarsi il pizamorto o monatto di manzoniano memoria. Un monatto era un addetto pubblico che nei periodi di epidemie era incaricato dai comuni di trasportare i malati nei lazzaretti e i cadaveri nelle fosse comuni. Di solito i monatti erano persone condannate a morte, carcerati, o persone guarite dal morbo e così immuni da esso. Così scrive sempre il Calandra: uno va inante cum un gran crucifixo in mane, l’altro è precincto di una stola candida: li contrasegni dil loro pizamorto sono un bastone longo biancho in mane, e in spalla una gran saccocia sempre piena di pani bianchi, zuchari e confecti finissimi varij da porgere a li poveri infermi”.

Bibliografia: Luigi Pescasio, Mantova 500. Quasi un romanzo, Editoriale Padus, Mantova 1979

Immagine: Incisione di un medico romano del 1656