L’ultima caccia dei tori. Battagliole, orsi e cani molossi

Le cacce dei tori – o meglio dei buoi – si praticavano con regolarità, allievata il popolo veneziano, i patrizi e diventava un’occasione per invitare personaggi importanti. I frequenti incidenti tuttavia spinsero le autorità civili e religiose a proibire le cacce, limitarle, regolarle salvo poi revocare o ammorbidire le leggi appena comunicate. Lo spettacolo piaceva al popolo e non si poteva averlo contro.

La bolla “De Salute Gregis Dominici” del 1567 di papa Pio V scomunicava partecipanti e spettatori fino a negare la sepoltura in terra consacrata alle vittime. L’abate Giambattista Roberti di Bassano del Grappa, nel 1781 proponeva in maniera decisa l’abolizione delle cacce definendole un “avanzo dei divertimenti barbarici, che a mio giudizio non fa onore all’educazione di un popolo”. Il divieto comunque era nell’aria e arriva solo però sotto il governo austriaco nel 1802 ovvero cinque anni dopo il trattato di Campoformio. Era il 22 febbraio. A dire il vero per qualche anno le cacce continuarono a Murano e nell’entroterra ma furono definitivamente vietate dal Regno Italico napoleonico.

La stessa sorte la subì anche un’altra feroce tradizione veneziana. Le “battagliole” combattute sui ponti tra le fazioni dei Nicolotti – sestieri di S. Croce, S. Polo e Cannaregio – e dei Castellani – sestieri di Castello, San Marco e Dorsoduro – furono proibite nel 1705. Come secoli prima volavano pugni, calci e si usavano dei bastoni. Un secolo prima della caccia ai tori. Emanuele Cicogna, studioso veneziano e collezionista di libri, pubblica tra il 1824 e il 1853 i sei volumi dell’opera “Delle iscrizioni veneziane”, uno zibaldone di cronache. Tra queste appare descritta un’altra curiosa caccia, quella degli orsi. Cambiano i soggetti ma l’iter e gli attori non cambiano. Al posto dei tiratori c’erano ovviamente i tiraorsi. Compare anche la figura del cavacani che partecipava alla caccia con i cani corsi o molossi. La loro funzione era di lanciare i cani all’inseguimento e pronti ad azzannare le orecchie dei tori. I cani molossi, ci racconta sempre Cicogna, venivano addestrati ad azzannare le orecchie dei buoi proprio nel macello pubblico in San Giobbe.

Una caccia all’orso si svolse nel 1688 in campo Santa Maria Formosa alla presenza del Granduca di Toscana Ferdinando de’ Medici. Oltre a quella riportata nell’articolo una testimonianza pittorica di questo tipo di caccia è l’incisione di Domenico Lovisa datata 1717 e conservata presso la Querini Stampalia.

Bibliografia: Emanuele Antonio Cicogna, “Delle iscrizioni veneziane raccolte ed illustrate da Emmanuele Antonio Cicogna Cittadino Veneto”, vol. III, presso Giuseppe Picotti stampatore, editor  l’ autore, Venezia MDCCCXXX | Tamassia Mazzarotto Bianca, Le feste veneziane, i giochi popolari, le cerimonie religiose e di governo, illustrate da Gabriel Bella, Sansoni, Firenze 1961

Immagine: Gabriele Bella, caccia all’orso in Campo Sant’Angelo (Querini Stampalia 1779)

Quando a Venezia correvano centoventi tori. I patrizi, il popolo e la licenza del parroco

Sembra impossibile ma nei secoli passati avremmo visto dei tori correre per Venezia e delle persone ad inseguirli. La cosiddetta “caccia dei tori” si praticava durante il Carnevale nei campi di Santa Maria Formosa, di San Polo, di Santa Margherita e di Santo Stefano. O almeno era necessaria una certa ampiezza per lo spettacolo. Il toro veniva trattenuto per le corna con due funi lunghissime tirate da due o tre uomini chiamati i tiratori. Tra i più bravi le cronache citano il patrizio Girolamo Savorgnan.

Infatti a queste cacce partecipavano tutti, sia patrizi che popolani e potevano osservare lo spettacolo in appositi palchi che venivano preparati oppure se ne stavano sopra le altane. Il dipinto di Gabriele Bella raffigura la caccia dei tori alle Chiovere di San Giobbe. Le chiovere erano dei luoghi aperti in cui si tendevano i filati e i tessuti che venivano appesi ai chiodi. In questa piazza abitavano i Cavagnis, una grossa famiglia di beccai. Ogni anno organizzava una festa invitando la famiglia dei Diedo con banchetto e caccia ai tori. Chi non partecipava poteva vedere dai balconi lo spettacolo.

Le cacce durarono anche nel Settecento e nell’Ottocento utilizzando l’alternativa “alla spagnola”. Infatti in quella del gennaio 1783 in Campo San Polo si vede la presenza di due toreri spagnoli. Per loro non finì bene, uno fu incornato. Alcune precisazioni: sarebbe più corretto chiamarle cacce dei buoi e non dei tori. Inoltre il tutto veniva regolamentato da precise norme di comportamento e da una buona prassi urbana. Una volta individuato il luogo di svolgimento si andava dal parroco della parrocchia di riferimento e si chiedeva se l’attività poteva dare disturbo alle funzioni religiose. Serviva quindi una licenza del parroco. Una volta ottenuta si chiedeva quella formale al Consiglio dei Dieci. I promotori si occupavano di gestire l’organizzazione degli ospiti, della pubblicità alla popolazione e nel luogo prescelto si affiggeva un cartello con scritta la data dell’evento.

Quanti tori o buoi avremmo visto? Nelle grandi occasioni potevano essere fino a un centinaio. L’evento organizzato nel 1767, in onore di Carlo Eugenio Duca del Wurtemberg, se ne utilizzarono 120.  

Bibliografia: Battagia Michele, Ci­calata sulle cacce di tori veneziane, Tipografia Merlo, Venezia 1844 | Busetto Giorgio, Crona­ca veneziana: feste e vita quotidiana nella Venezia del Settecento, Fondazione Scientifica Querini Stampalia, Venezia 1991 | Curiosità veneziane. Ovvero origini delle denominazioni stradali di Venezia, Filippi 2009

Immagine: Gabriele Bella, La caccia dei tori alle Chiovere di San Giobbe (Querini Stampalia, 1779)